Chernobyl trent’anni dopo
Il disastro di Chernobyl – Pripyat compie trent’anni. Ancora silenzio e omertà di stato su quello che è conosciuto come il più grave incidente nucleare che l’uomo abbia vissuto.
Alle 1,23 nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1986 in un villaggio posizionato a nord di Kiev, capitale dell’Ucraina, e ai pochissimi chilometri dal confine con la Russia e la Bielorussia.
Vi risiedevano circa 13mila anime a Chernobyl e 43mila a Pripyat. Il colosso d’argilla bolscevico sta per frantumarsi dopo oltre 60 anni di sovranità incontrastata.
In quel territorio ricco di fiumi e di laghi nel 1970 inizia la costruzione di una centrale nucleare, servono ben otto anni affinché il primo reattore entri in funzione, al primo ne seguiranno altri tre. I reattori 5 e 6 vengono commissionati nel 1981 però non entreranno mai in funzione.
I lavori sono in economia, quasi in tirchieria. Il regime sovietico ignora le più elementari norme e regole della sicurezza sul lavoro, per i superburocrati del Cremlino la salute e il benessere della plebe conta meno del due di briscola.
Il reattore numero 4 comincia a produrre il 26 marzo 1984.
La notte tra il 25 e il 26 aprile ‘86 i tecnici hanno programmato una simulazione di guasto al sistema di raffreddamento. Il caposala inspiegabilmente mantiene le procedure al di sotto dei limiti consentiti per i test e ancor più inspiegabilmente ignora gli allarmi che segnalano la mancanza d’acqua nel reattore.
Un sistema di controllo superficiale e sparagnino, non è compresa una scala gerarchica adeguata all’importanza della tipologia di produzione visto che a Chernobyl-Pripyat non si lavora il cioccolato o i bonbon.
Una serie concatenata di errori porta il reattore ad una potenza superiore 120 volte alle sue capacità. Tutto si surriscalda e scoppia un incendio, l’acqua di raffreddamento si trasforma in vapore ed esplode, in aria salta una piastra pesante mille tonnellate.
Si scoperchia il reattore e nell’atmosfera viene proiettata una quantità indescrivibile di materiale radioattivo, tra cui iodio e cesio che presenta un’altissima tossicità radiologica.
Scoppia l’inferno ma le autorità periferiche e centrali si cuciono le bocche, fingono di essere a carnevale inoltrato e non si preoccupano neppure di accelerare lo sgombro del territorio.
Ci vorranno dieci giorni per spegnere l’incendio, però è dalla centrale nucleare di Forsmark, villaggio situato nella contea di Uppsala in Svezia, che viene lanciato l’allarme poiché si accorgono che sulle tute degli operai che lavorano alla centrale locale vi sono particelle radioattive non imputabili a perdite dagli impianti di Forsmark.
Si convincono che deve averle trasportate il vento dall’Urss.
A Mosca regna Michail Gorbaciov, nel 1990 gli offriranno pure il Nobel per la Pace, e solo il 14 maggio comunicherà al mondo il disastro ucraino.
Come avviene da sempre ove governano le dittature, si minimizza e si sorride scaricando le colpe sui nemici interni ed esterni e sui media che ingigantiscono persino le formiche.
L’evacuazione principia solo il 2 maggio.
Vi è poi la battaglia dei numeri sui decessi, le fonti ufficiali dichiarano 56 morti e 4mila presunti decessi dovuti alle conseguenze per leucemie e tumori, diverse altre fonti invece sostengono si tratti di centinaia di migliaia mentre per Greenpeace gli scomparsi sono sei milioni tra quelli di ieri e quelli di domani.
Su un dato concordano quasi tutti, la radioattività che è uscita dal reattore numero 4 è stata di oltre 200 volte superiore a quella sprigionata dalla bomba atomica Little boy che fu sganciata dal bombardiere Enola Gay (è il nome della madre del pilota colonnello Paul Tibbets) su Hiroshima.
Oggi tutta la zona è divenuta deserto di sterpaglie, in superficie i tassi di radioattività sono sensibilmente diminuiti ma se si scava nel terreno per dieci centimetri aumentano spaventosamente.
Neppure bestie randagie si azzardano ad avvicinarsi a Chernobyl e a Pripyat dove vivono poche decine di persone afflitte dalla miseria e dalla disperazione.
Bruno Galante
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