4 Maggio 1949: quando morì il calcio italiano
Un vero grande peccato che domenica 24 aprile il Torino di Giampiero Ventura si sia lasciato battere, con quasi irrisoria facilità, dal Sassuolo.
La delusione, infatti, è stata forte e doppia: per la brutta figura rimediata e soprattutto perché era la prima volta che l’undici granata si esibiva nello stadio Olimpico appena ribattezzato Grande Torino, in onore e memoria dei Campionissimi di capitan Valentino Mazzola.
Uno scotto, atletico e morale, che arriva a pochi giorni dalla solenne ricorrenza. Sessantasette anni or sono l’aereo che riportava il Grande Torino dal Portogallo si schiantava sul colle di Superga. Dall’impatto e dal rogo non si salvò nessuno: 18 i giocatori, 31 in tutto con giornalisti ed equipaggio. La più terribile tragedia annoverata dal nostro sport.
A Superga se ne va in un lampo non soltanto una squadra di calcio, ma un gruppo di uomini che incarnano il simbolo della rinascita e della speranza di un paese intero; di un’Italia, offesa e lacerata da una guerra assurda, che sta rialzando la testa, ritrovandosi nell’orgoglio di un manipolo di sportivi: il Grande Torino.
Interpreti di un’epopea che non ha eguali, i Campioni granata infilano cinque scudetti consecutivi e una Coppa Italia. Ben più numerosi potrebbero essere i trionfi, non ci fosse la sospensione bellica e poi il tragico scherzo ordito dal Fato.
Il capolavoro è opera di un uomo accorto e diplomatico, il presidente Ferruccio Novo.
In poche stagioni realizza un puzzle perfetto, dove ogni tessera è collocata nel posto giusto, quello che valorizza al meglio le caratteristiche tecniche e comportamentali di ciascun elemento.
Per prima in Italia, la squadra granata applica in modo costante e perfetto il cosiddetto “sistema”, abbandonando l’ormai superato “metodo”, che pure ha garantito grandi successi alla Nazionale di Vittorio Pozzo.
Ma il Grande Torino è compagine che guarda al futuro.
Il 3-4-3 si basa su una difesa ermetica, un attacco implacabile e, su tutto, un quadrilatero di centrocampo che è il vero motore vincente. Grezar, Castigliano, Loik e Mazzola impostano, dirigono e sostengono. Proteggono la difesa e ispirano l’attacco.
Fra i pali c’è Valerio Bacigalupo, un portiere atletico moderno; la coppia di terzini non potrebbe essere meglio assortita con la forza di Aldo Ballarin e la leggiadra classe di Virgilio Maroso, ai lati del roccioso centrale Mario Rigamonti, un autentico mastino.
Davanti, a destra, guizza in rapide fughe il potente Romeo Menti, al centro il funambolico Guglielmo Gabetto si inventa reti impossibili, mentre a sinistra l’opportunista Franco Ossola è un gioiello di tecnica sopraffina.
Un mix perfetto, la squadra, di classe e potenza, di intelligenza e creatività, di sagacia tecnica e di improvvisazione.
Il quarto d’ora che il Grande Torino sa imbastire per vincere le partite è passato alla leggenda del nostro calcio. Un momento di frenesia, una sarabanda che non dà scampo ad alcun avversario, per agguerrito che sia.
A Superga questo miracolo di squadra scompare, si polverizza, lasciandosi dietro il ricordo di imprese che presto diventano leggendarie e un retaggio di affetto e commozione che è vivissimo tutt’oggi.
Ogni 4 maggio – e sarà così anche quest’anno dopo ormai 67 anni – il popolo granata sale il pendio della collina come in mesto pellegrinaggio per rendere onore ai Campionissimi.
Coloro che li hanno visti giocare e ne conservano un ricordo sono ormai sempre meno, ma la grande gioia che hanno provato sono stati capaci di trasmetterla con intensità a figli e nipoti.
E così anche chi ha soltanto sentito raccontare o letto del Grande Torino si immagina di averlo visto giocare, vincere, conquistare scudetti, in una sorta di miracolo della memoria che, come per magia, si fa viva attualità.
Nella vicenda granata i dieci anni di dominio assoluto del Grande Torino sono come un prezioso cameo incastonato nella sua Storia, un fulgido diadema che non smette di brillare, continuamente affascinando.
Franco Ossola
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