Gli sgraditi forestierismi che pochissimo insegnano
Tutto è cominciato con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e delle disavventure belliche. A seguito dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 ci siamo trovati gli americani in casa i quali partendo dalla Sicilia sono saliti sino alle Alpi. Da allora non se ne sono più andati, li abbiamo ancora nelle nostre strade nonostante il conflitto sia finito da 70 anni. A furia di vederli e sentirli abbiamo anche imparicchiato la loro lingua e scopiazzato il modo di vivere, girato film (Alberto Sordi con la spaghettata) e scritto canzoni (Renato Carosone e tanti altri).
Noi che apparteniamo alla stirpe di Ovidio, Cicerone, Orazio Flacco, Petrarca, Dante, Manzoni, Leopardi per arrivare ai nostri giorni con Pirandello, Sciascia, Grazia Deledda, Montale e migliaia di altri illustri, oggi dobbiamo subire l’invasione di frasi e termini del tutto sconosciuti ma che vengono utilizzati di continuo.
L’inglese non lo conosciamo ma tentiamo di parlicchiarlo in maniera goffa e incomprensibile.
A difesa delle nostri nobili origini Michele Cortellazzo, Paolo D’Achille, Valeria della Valle, Jean-Luc Egger, Caludio Giovanardi, Alessio Petralli, Claudio Marazzini, Luca Serianni e Annamaria Testa hanno costituito il gruppo Incipit.
Il loro compito e impegno è quello esaminare e valutare parole nuove introdotte nel nostro lessico e i forestierismi incipienti (parole o frasi straniere che si affacciano nel linguaggio comune italiano, ndr).
Questi signori non sono gli ultimi arrivati ma sono i custodi dell’idioma nazionale, capitanati da Claudio Marazzini al quale hanno affidato il gravoso compito di guidare l’Accademia della Crusca che è la cassaforte della lingua dantesca.
Accade che in tanti non possedendo la chiave del dizionario italiano si rifugiano in stamberghe anglofone un po’ per mostrare la puzzetta sotto il naso, un po’ per auto innalzarsi su gradini di polistirolo, un po’ per sfoggiare idiomi sconosciuti con l’auspicio del consenso e dell’applauso.
Oramai, però, è un vento che è divenuto tempesta e che non può più essere arginato parando le mani. Se l’Alessandro nazionale si trasferì nella capitale del Rinascimento per risciacquare i panni in Arno e rendere il suo sterminato capolavoro di statura planetaria, sarebbe opportuno che tanti professionisti e dilettanti di tanto in tanto trascorressero dalle parti di Ponte Vecchio qualche giorno per assaporare la calata e il frasario dantesco.
Qualcuno dovrebbe spiegare utilizza baby anziché bambino, love (senza apostrofo) anziché amore, gay anziché omosessuale, clan anziché gruppo, ed altro ancora.
Questo rigagnolo inquinato, purtroppo, si è addentrato persino nelle aule universitarie e tanti studenti per non contraddire i soloni e rischiare un voto inferiore plaudono e acconsentono.
Qualcuno si difende sostenendo che non esiste traduzione adeguata nella nostra lingua. È una difesa stolta e sabbiosa.
Perché performance significa risultato, benchmarking significa analisi comparativa, benchmark è il parametro di riferimento, tool è lo strumento, distance learning è l’apprendimento a distanza, public engagement è l’impegno pubblico e si potrebbe continuare ad oltranza.
Ovvio che esiste la libertà di scelta di ciascun docente o manager di utilizzare lingua e linguaggio che ritiene più opportuno però ciò che fanno notare gli esperti dell’Incipit è che questa fitta terminologia anglicizzante venga applicata in maniera forzosa e sia esibita per trasmettere un’immagine pretestuosamente moderna dell’istituzione universitaria, lasciando credere a chi ascolta che i termini tecnici inglesi siano privi di equivalenti nella nostra lingua.
Ciò è del tutto fuori luogo e fasullo e fa sorgere il dubbio che taluni cattedratici frequentino con malavoglia i nostri dizionari.
Si potrebbe paventare che si tratti di modernizzazione e di adeguamento agli standard internazionali ma si potrebbe ribadire, piuttosto, che si tratti di operazione massiccia di autentica anglocosmesi o, peggio ancora, di sudditanza o servilismo linguistico.
L’istituzione universitaria dovrebbe essere locomotore culturale e non una delle tante carrozze che si agganciano a secondo della moda e del vento che spira.
Vi è poi il mondo dell’informatica dove vige quasi in toto una terminologia anglofona che magari potrebbe essere adottata dai tecnici, dagli analisti, dai programmatori, che serve a quanti operano nel settore per una maggiore e migliore collaborazione e comunicazione. È basilare per i giovanissimi entrare nel mondo dell’informatica per lasciare spalancate le possibilità occupazionali future ma è molto più importante che conoscano bene la lingua italiana.
Il nostro idioma è il quarto più studiato al mondo, e si incrementa di giorno in giorno la percentuale dei turisti che vengono a visitare il Bel Paese che sanno esprimersi in italiano ma che soprattutto vogliono esprimersi in italiano, perché piace, perché è musicale, perché è familiare.
Anni fa si è disputata una battaglia per la chiarezza, la semplicità e la comprensione, grazie a questa battaglia è quasi scomparso il “politichese”, alcune professioni, vedi i medici, oggi scrivono e parlano in maniera più comprensibile per tutti.
Oggi, a detta degli esperti linguistici, molte leggi sono scritte con scarsa chiarezza e addirittura con errori grammaticali, a volte persino i titoli sono errati. Ciò genera incomprensioni e interpretazioni nel momento in cui vanno applicate.
Che sia una conseguenza del mancato amore e rispetto nei confronti della Divina Commedia e dei Promessi sposi?
Forse che si sono smarrite le migliaia di pagine di cultura che abbiamo scritto oppure sono coperte di polvere?
Dato che le nostre tradizioni ed il nostro passato ha pochissimo, oppure zero, da invidiare e da copiare al resto del mondo per quale ragione dobbiamo trasformarci in provincia da conquistare e da indottrinare?
E qualora ciò fosse rimbocchiamoci le maniche e spolveriamole.
la Redazione
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