Vladimir Putin, l’ultimo zar e il sogno liberale
La si può pensare come si vuole su Vladimir Putin, ma è il meglio e il peggio che quell’incubo travestito da sogno, che fu il comunismo, potesse produrre.
Il cadavere di Anna Politkovskaja grida vendetta inascoltata. Ma la Russia, la Santa Madre Russia è un Paese troppo grande per una democrazia compiuta. Putin lo ha capito e ha coniugato le tre forze che sono sopravvissute alle macerie dell’impero sovietico: quel che resta dell’esercito, la mafia russa che si è trasformata in azienda imprenditrice, e la Chiesa ortodossa.
La politica Estera, la si capisce, solo conoscendo la geografia. Quel subcontinente che si estende dagli Urali al Baltico, ha troppe terre, troppi fiumi e troppe ricchezze. E richiede un controllo capillare del territorio e dei popoli.
La Federazione Russa è un crogiolo di etnie, tribù e bande. Il gas e il petrolio fanno gola a molti e fomentano spinte centrifughe che si alimentano di odi ancestrali e che, se non controllate, farebbero della Russia un bubbone jugoslavo di dimensioni globali.
Le sanzioni dell’Europa sono solo un foruncolo sull’immenso corpo del malato russo, oltre che un modo per incentivare affari sporchi e miliardari. Quello che noi viviamo dell’immigrazione russa è solo la punta di un iceberg.
Le badanti ucraine e moldave che assistono i nostri anziani, sono i profughi di un mondo che fu e che non capiscono, ma che a loro insaputa gli ha rubato l’anima, come aveva fatto con un eroe dimenticato della letteratura russa, quell’Oblomov, di cui pochi ricordano l’autore, (per la cronaca si chiamava Ivan Alexesievic Goncarov), ma che ha superato se stesso ed è diventato l’emblema di quella noia repressa ed esistenziale che ha da sempre costituito un tratto marcato dell’identità slava.
A Mosca e a San Pietroburgo i liberali hanno sempre avuto vita difficile e breve. Quando non sono finiti in prigione, hanno scelto l’esilio volontario.
Nel 1825 la rivolta degli ufficiali illuminati, i famosi decabristi, finì nel sangue e anche Fjodor Dostojevski provò i campi di prigionia della Siberia, dove l’epilessia, il mal caduco di cui aveva sempre sofferto, sì aggravò in maniera irreparabile fino a condurlo alla morte negli anni in cui, dopo il carcere, scelse una vita quasi isolata.
L’anima russa romantica e amante della libertà è stata sempre molto profonda, ma minoritaria, quando non ha sconfinato nel misticismo e nel populismo di matrice religiosa come in Tolstoj, o nelle forme più estreme come in Rasputin. La Grande Madre Russia si è sempre affidata ad uno zar.
La rivoluzione borghese di Kerenskjj fallì miseramente e aprì le porte a Lenin e alla furia bolscevica. Il campione dell’anima russa divenne sotto Stalin lo scrittore Alexander Solzenicyn, il patriarca ortodosso Ticon, canonizzato da Giovanni Paolo II, il Papa polacco che, sull’onda del Concilio e di Giovanni XXIII, aprì la Chiesa del silenzio.
Ho visitato la Russia e la Polonia, innamorandomi, non di Mosca, non di Varsavia, ma di San Pietroburgo e Cracovia, di quell’anima soave nascosta dentro il cuore del mondo slavo che faceva dire a Puskin, di fronte allo zar Nicola I che se si fosse trovato a San Pietroburgo avrebbe appoggiato i rivoltosi nella prospettiva Nevski.
Sulla Vistola ghiacciata, con le donne che pregavano in silenzio nelle cattedrali sempre aperte, all’alba di questo claudicante XXI secolo, ho visto le vecchiette con i carretti a cavalli vendere il pane raffermo a chi aveva fame. Una vecchia canzone di Claudio Baglioni diceva: “Le ho viste le ragazze dell’Est”.
In quelle ragazze dell’Est, nei loro occhi striati di cielo e ghiaccio, che scendono dai pullman in Europa per farsi badanti o al peggio prostitute, c’è tutto il rimpianto, malcelato e inconscio di un sogno liberale mai realizzato e sempre accarezzato nei poeti come Pasternak e Puskin. “Se un popolo ama la poesia ama i poeti, diceva il dottor Zivago, e nessuno ama la poesia più di un russo”.
Ma la realtà ha gli occhi gelidi e spietati di Vladimir Putin. Il quale sa che, a volte, il bene passa per le vie del male. E il mondo non ha pietà di chi soccombe. Fino a un certo livello si parla di criminalità, poi, diventa solo business. Bisogna fare in modo che questo business sia controllato e non cada in mani sbagliate scongiurando una ecatombe.
Le badanti georgiane dicono: Russia brutta. Ma l’ultimo zar sa che solo lui può salvarla. Ad un prezzo che solo lui può pagare. A patto che ne sia capace e che non lo faccia ricadere su un popolo intero.
Le conseguenze sarebbero devastanti, i piccoli dittatori regionali lo dimostrano.
L’Europa e l’Italia non possono stare a guardare.
Secondo l’Ice, l’Istituto italiano per il commercio con l’Estero, il nostro volume di esportazioni con la Russia ammonta a più di 16 miliardi di euro. Per non parlare del gasdotto siberiano, che ci fornisce di energia.
La politica non si fa con la poesia. Purtroppo. E il sogno di una Russia più libera è già naufragato sulle ambizioni di Pietro il Grande e Caterina II.
Michele Pacciano
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