Vanto per Matera
Quando Matera è stata proclamata capitale europea della cultura 2019 ho subito pensato con molti che non poteva non imporsi il suo prodigio di pietra scavata nei secoli da anonimi cavamonti che ne trassero primi abituri e luoghi di culto ingrottati, poi dimore e chiese “en plein air” e cisterne per tesaurizzare l’acqua piovana.
Non si poteva non onorare soprattutto l’epopea, la fatica e il martirio, l’impegno e la pietà dei suoi antichi abitanti.
La proclamazione ha costretto i media connaturali allo sguardo a diffondere con bella assiduità il “visibile parlare” di una città così eminentemente fotogenica, anzi cinegetica, che chiunque la inquadri sia pure con l’obiettivo più distratto e mediocre ne porta via un sicuro bottino, mentre le parole arrancherebbero a decifrarne l’identità o si appiattirebbero nelle rimasticature.
I geologi sostengono che durante il Cretaceo, fra 145 e 65 milioni di anni fa, la Murgia materana si mantenesse poco sotto le acque del mare, facendo parte di una vasta regione al cui abbassamento (subsidenza) rimediarono massicce sedimentazioni di fango che, compresse dal peso, si cementificarono (diagenesi).
Emersa alla fine di quel periodo, risommersa parzialmente alla fine del Pliocene superiore circa 2,5 milioni di anni fa, rialzatasi alla fine del Pleistocene inferiore circa 1 milione di anni fa, la Murgia materana si trovò sollevata e, nello stesso tempo, incisa profondamente dal torrente Gravina. L’eredità provveduta da tanta vicenda geologica è costituita da due tipi di roccia: sottostante il Calcare di Altamura, stabilizzato e compatto; sovrastante la Calcarenite di Gravina, color avorio e morbida al taglio, spesso decorata da fossili di organismi marini.
Mutuando “l’intenzione del testo” raccomandata da Umberto Eco in una traccia per la maturità, oso affermare che la Città dei Sassi fu l’intenzione della Calcarenite.
La città che la vulgata dei ciceroni celebra come la più antica del mondo, preceduta solo da Aleppo e Gerico, discende in realtà da tale roccia. Era covata nella predisposizione carsica all’abitare. Per lei era ammassato in sovrabbondanza un materiale docile e incline al costruire e allo scolpire.
Nei secoli dal Medioevo al Settecento gli spaccapietre come formiche vi avrebbero ritagliato miriadi e miriadi di conci per gli edifici sacri, per le facciate, le decorazioni e le figure che, nonostante erosioni, alveolizzazioni e attacchi di muschi e licheni, biondeggiano ancora sotto il sole che non li diserta.
Ritengo che Matera abbia bisogno di storici. Quanto sinora è stato acquisito e pubblicato, pur addensando una ragguardevole bibliografia, deve essere sistematizzato e ripreso, sotto l’egida della sobria e mobile certezza storica.
Per uscire dalla frammentarietà occorrono giovani ricercatori vocati a una prolungata dedizione. Vi sono “in loco” documenti che aspettano il discernimento di valorosi interpreti, non il “bricolage” di qualche “amateur” domenicale.
Alla Chiesa del posto più che ad altre istituzioni spetta il dovere di ritornare alla storia, per il ruolo primario che ha giocato nella formazione dell’identità di Matera.
Nessuno storiografo si periterebbe di negare che qui per secoli si verificò una singolare evangelizzazione, un dialogo fra il Vangelo e il popolo della Calcarenite, un’incarnazione creativa del Verbo che concertò le risorse materiali e culturali della comunità con esiti monumentali che permangono, diversamente purtroppo dall’ “intero corpus di credenze, comportamenti, conoscenze, sanzioni, valori e obiettivi”, – uso parole del Concilio Vaticano II – , che segnarono il modo di vivere di quelle stagioni e sono affievoliti se non perenti nella modernità.
Se qui dimorò per secoli una umanità tesa a coniugare il cielo e la terra, sotto la costellazione una e varia che va da Antonio il Grande a Benedetto, passando per Basilio Girolamo e Paola di Betlemme, l’odierno “cittadino culturale” di Matera e i suoi ospiti hanno il diritto di saperne di più.
Devono accontentarsi di rileggere la “Vita di Antonio” scritta da Atanasio, o la regola di San Benedetto, o “La vita quotidiana secondo San Benedetto” di Léo Moulin, e poi chiudere gli occhi e fantasticare sulle vite dei padri migliori, sulla logica sociale cui dettero origine, su quell’ethos che avrebbe qualcosa da insegnare alla città secolarizzata dove vige l’esasperata categoria dell’autonomia personale?
È solo un esempio per gridare il bisogno di storia meno difettiva.
L’encomio di quei trascorsi non esige una geremiade sui tempi moderni, come la denuncia dei limiti del presente non richiede cecità davanti alle miserie di allora. Si vuole semplicemente esaminare ogni cosa, per scegliere ciò che è buono, come incita San Paolo.
A Matera inebriata come una Cenerentola finalmente sottratta all’oscurità dedico una poesia di Emily Dickinson :
“Il compenso perfetto della fama
si ottiene disprezzandola
ama chi la disdegna
vòltati,
non vedi che t’insegue?
Cogliamo dunque il fiore di ogni giorno
e l’intero raccolto di una vita
sia vanto
e non infamia”.
Attenzione alla cultura “sub specie pecuniae” che potrebbe travolgerla, una deculturazione a tutti gli effetti che la renderebbe una cittadina piraña.
Basilio Gavazzeni
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