Social business si può, ma quale?
Il mondo è in movimento, non c’è tempo da perdere. Chi può accenda i suoi motori e si dedichi a salvare l’umanità che soffre. Fortunatamente si determinano elementi che si oppongono alla perdita di senso della vita che, invece, ci viene mostrata dappertutto. Ha fatto bene Monsignor Mansi nel Palasport di Andria nella sua omelia a puntualizzare la scala di valori: “Padre, siamo convinti che l’apparente tuo silenzio ci costringe a scendere in noi stessi e ascoltare di più la voce delle nostre coscienze a volte addormentate, zittite da prassi di vita alle quali ci siamo troppo allegramente abituati giungendo a considerarle normali, ma non lo sono. Perché non si pensa al valore della vita, delle persone ma a calcoli ottusi di convenienze e interessi. E il tutto senza scrupoli, generando piccole e grandi inadempienze nei confronti del proprio dovere, inteso nel senso alto e nobile del termine. Quel dovere verso i diritti delle persone, senza diversità e distinzione.”
Già nel 2010 Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, famoso come il banchiere dei poveri, accende i motori su un’altra sfida e lancia il social business. Lo farà raccontandolo nel suo libro “Building social business – the new kind of capitalism that serves humanity’s most pressing needs” dove spiega come abbia già convinto grandi imprese a impostare il loro business in modo umano. Sarà così che Danone fonderà una società in Bangladesh con Grameen Bank (la banca del microcredito di Yunus) per risolvere la malnutrizione dei bambini bengalesi fornendo uno yogurt con aggiunta di vitamine a un costo sostenibile per le famiglie povere. Nel libro, prima citato, è appassionante tutto il processo attraverso il quale si arriva alla sostenibilità economica della Grameen Danone Food Ldt, primo social business nel mondo avviato nel 2007. Nascerà un impianto di yogurt in Bangladesh per promuovere lo sviluppo della comunità locale.
Ma sarà dopo innumerevoli ritocchi sui costi da sopportare, pur senza abbassare la qualità, che i manager arriveranno a risolvere il punto della sostenibilità economica per la produzione. E sarà una piccola diminuzione dei grammi di yogurt, a garantire sia il prodotto di alta qualità che il suo costo accessibile alle fasce basse. Insomma dall’incontro del CEO Danone Franck Riboud e Muhammad Yunus, che scopriranno di avere competenze complementari, nasceranno diverse iniziative e si creerà quella che oggi è la Danone community.
Cioè una rete di imprese sociali di social business che si impegnano a trovare soluzioni per la lotta alla povertà e malnutrizione attraverso social business.
La Laiterie du Berger, per esempio, è un’azienda familiare nata nel 2005, per iniziativa di Bagore Bathily, un giovane veterinario senegalese, che ragiona intorno al fatto che in Senegal il 90% del latte viene importato sotto forma di latte in polvere. Questa è un’aberrazione visto che quasi un terzo della popolazione del Senegal tradizionalmente vive dei bovini zebù, le mucche locali che producono latte. Così la Laiterie du Berger è il primo impianto in Senegal di trasformazione del latte locale.
Eppoi si è sviluppata l’idea di creare una società che offre i prodotti a base di latte e questo consente di migliorare le condizioni di vita degli agricoltori e dei pastori fulani, una etnia nomade dell’Africa occidentale, dedita appunto alla pastorizia (giusto una nota culturale: Baaba Maal è un famoso musicista e cantante Fulan) che in questo modo hanno rotto l’abitudine di dedicarsi unicamente al bestiame senza curare l’opportunità di produrre latte.
Gli esempi di social business che la Danone Community ha creato non sono pochi.
Anche l’accesso all’acqua con il progetto El Alberto, nome di una regione nello stato di Hidalgo, nel centro del Messico, che è una delle regioni più aride del paese. Le comunità locali dipendono da piccole sorgenti d’acqua, lontane dalle loro case e nel tempo sempre più inquinate. Così, le donne delle comunità sono costrette a trasportare l’acqua a catinelle. Il progetto ha reso possibile l’accesso all’acqua salubre per 25.000 persone a meno di 0,2 € per 200 litri, e questa attività è affidata alle donne che traggono fonte di reddito distribuendo l’acqua.
Il social business è di più tipologie e può anche prevedere che le aziende grandi e multinazionali facciano nascere medie, piccole e microaziende dove introducono capitale e competenze, una volta che la nuova azienda è consolidata possono anche riprendersi il capitale, ma non esistono utili.
Questo determina molti posti di lavoro dedicati a prodotti rivisitati dalla garanzia della massima qualità e dalla sostenibilità economica sia per l’impresa che per il consumatore che appartiene alla fascia bassa o medio bassa.
Ma attenzione, completamente distante da quanto prima descritto, con il termine di “social business” oggi viene indicato un mercato che si attesta 2 miliardi di dollari, collegato al fenomeno del Mobile Business, si tratta di applicazioni e piattaforme digitali che mirano ai social e all’impostazione social, per un mercato che ha evidenziato nel 2015 tassi di crescita tra il 20% e il 25% e promette molto bene per gli anni che verranno. La progressione riguarda sia le componenti rivolte all’interno delle aziende (Social Intranet, piattaforme di Social Collaboration, Social HR), sia quelle rivolte all’esterno e legate all’analisi e al monitoraggio della reputazione, alla customer satisfaction e all’utilizzo dei social come canali di marketing e di fidelizzazione.
Su questo versante un mese fa a Milano si è svolto il 7 e l’8 luglio presso l’Hotel Marriott il Social Business Forum, organizzato da Open Knowledge. Dove innovare è il verbo declinato da una serie di interventi e case study che sono stati presentati.
Certo oggi questo significa focalizzarsi su tutte quelle tipologie di strumenti digitali che stanno stravolgendo la vita aziendale, i ruoli all’interno e quella dei consumatori. Così i casi concreti di esperienze vissute all’interno dell’azienda sono state messe a disposizione dei presenti al nono forum del Social Business.
L’elenco dei temi vede latitare a pieno la lingua italiana, ormai tutto è definito dal linguaggio americano e anche un preciso taglio sociale delle imprese che sono assai grandi. Via via affronteremo qui, su leMeridie.it, i vari settori e termini per chiarirceli ma abbiamo anche già pubblicato qualcosa in questa direzione. Quindi alcuni di questi che nell’elenco troviamo sono: internet of things, cloud computing, sharing economy, social media marketing, business transformation e big data.
Ma il regno è dominato dal termine “disruption” che significa distruggere, destrutturare, morire, cioè per ripartire bisogna saper riscrivere completamente le regole e i modelli aziendali di business e del settore di appartenenza, chi prima lo farà si conquisterà il mercato, altrimenti sarà spazzato via da questo.
Invece, ritornando al social business originale, a Londra il 17 giugno si è tenuta la prima conferenza annuale della European Social Enterprise Association – ESELA, nata nel novembre del 2015 per chiamare all’appello la comunità internazionale dei professionisti legali che si occupano di charity, social business e impact investing.
Questa associazione è il risultato di una mappatura finanziata dalla Commissione Europea delle legislazioni dei 29 Paesi Membri in materia di impresa sociale cioè la “Social Business Initiative”.
Gli esperti legali di questo settore sentivano la mancanza di un momento aggregatore, oggi ESELA, per una migliore comprensione della relazione tra diritto e impresa sociale in tutta Europa e nel mondo, al fine di sostenere lo sviluppo e la crescita dell’imprenditoria sociale.
Così mentre Muhammad Yunus continua a lavorare con la Grameen Bank che ha aperto 2.185 filiali in 69.140 villaggi con un totale di 17.336 dipendenti, finanziando 6,39 milioni clienti di cui il 96% sono donne, e mantenendo costante il 98,45% come tasso di rimborso dei prestiti, anche l’Europa si organizza verso un social business più diffuso che, come abbiamo visto in Italia in un articolo precedente, con la Social Business Lab Pistoia inaugura la sua prima sede italiana.
Non v’è dubbio che di questo ha bisogno l’umanità, di un sviluppo in grado di utilizzare le competenze di tutti, specialmente le più innovative per risolvere quanto di ormai stagionato e cronicizzato c’è a danno della popolazione mondiale: la fame, la mancanza di accesso alla risorsa idrica, il pericolo della riduzione della biodiversità, l’accesso all’istruzione e ai farmaci essenziali, la garanzia di un pianeta che difenda le sue risorse preziose. Insomma quell’attenzione a una qualità olistica dello sviluppo che vi proporrò puntualmente. Buone stelle cadenti, è tempo di desideri e se li facessimo in questa direzione?
Fabrizia Paloscia
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