Sulla sottomissione femminile in Occidente
L’interpretazione è un “procedimento il cui obiettivo e il cui adeguato risultato è un intendere”. Lasciamoci guidare dalla “Teoria generale dell’interpretazione” (1955) di Emilio Betti (1890-1968).
Anche per il pensatore italiano, come per Heidegger, Gadamer e Bultmann l’interprete “non deve essere passivamente ricettivo, ma fattivamente ricostruttivo”, purché il senso dell’oggetto non venga sovrastato dalla precomprensione del soggetto che è un abuso di cui era maestro arzigogolante ed ermetizzante proprio Heidegger.
Bisogna mandare a memoria la formula regale che compendia l’intera opera di Betti: “sensus non est inferendus sed efferendus”. In altre parole, il senso di ogni forma sensibile attraverso la quale un altro spirito parla al nostro spirito non va introdotto ma ricavato dalla stessa forma.
È questo il primo dei quattro canoni o criteri che, per Betti, devono essere onorati quando si interpreta.
Il secondo, riguardante ancora l’oggetto, è quello della totalità e coerenza della considerazione ermeneutica. Spiega Giovanni Reale: si vuol dire che le parti di un testo vengono illuminate dal senso dell’intero testo e che il testo nel suo insieme viene compreso nel continuo confronto con le sue parti e nel continuo esame di queste.
Il terzo canone riguarda il soggetto: è il canone dell’attualità dell’intendere. Ogni interprete deve approssimarsi all’oggetto con la soggettività più onesta.
Il quarto canone, pure riguardante il soggetto dell’interpretazione, è quello della corrispondenza di significato o consonanza ermeneutica. All’interprete che vuole intendere un oggetto occorre “un’apertura spirituale” che gli permetta di “collocarsi nella prospettiva giusta, più favorevole alla scoperta e alla comprensione […] un’attitudine congeniale animata da un sentimento di stretta affinità.”
Traggo queste nozioni utili a qualsiasi interpretazione da “Cento anni di filosofia. Da Nietzsche ai nostri giorni”, editrice La Scuola, 2015, per soppesare come due teologi si sono confrontati più o meno sul tema della donna secondo san Paolo.
Vito Mancuso che aveva scritto su “Repubblica” del 27 agosto un articolo dal titolo redazionale “L’Islam, il cristianesimo e la polemica del burkini” e Rosanna Virgili che l’aveva criticato su “Avvenire” del 1° settembre, eccoli partire lancia in resta sul terreno di “Agorà cultura” nel giornale cattolico dell’11 settembre.
Mancuso sostiene che non era nelle sue intenzioni studiare il “controverso pensiero di san Paolo sulle donne” ma riflettere sulle differenze fra Occidente e Islam. Se per secoli, nell’uno e nell’altro, la donna è stata sottomessa al potere maschile, oggi in Occidente non è più così come dimostra il libero abbigliamento delle donne.
Mancuso è del parere che in Occidente la sottomissione femminile del passato non può non avere una radice anche nel testo della Bibbia, Nuovo Testamento compreso, “così come oggi la condizione della donna nel mondo islamico si spiega anche in base al Corano.”
Alla Virgili che sulla base di alcuni testi di san Paolo ritiene innegabile “una presenza autorevole e per nulla sottoposta delle donne nelle comunità cristiane” sia pure velate nella preghiera e silenti nelle assemblee, replica: “poi però che è successo?” E perché la gerarchia cristiana si è configurata in maniera maschile? ha forse tradito le Scritture? o, invece, ha trovato in queste dove far leva?
Il san Paolo della 1 Corinzi 11,3-10 ha prodotto certi effetti di subordinazione penetrati persino in un diritto matrimoniale che sanciva l’inferiorità della moglie rispetto al marito. Se la Virgili addebita a Mancuso di aver tagliato i versetti 11-12 di quel testo, il teologo di Repubblica rincara che “la parità ontologica […] a livello mistico non produce per lui parità ecclesiastica.” E a sua volta ritorce che la Virgili ha tagliato i versetti 13-16 riferendo da avvocato difensore di san Paolo alcuni testi (1 Cor 7, Ef 5, Gal 3,26) ma omettendo i più imbarazzanti (1 Cor 14,34-35 e 1Tm 2,11-15). Testi, quest’ultimi, da cui per esempio proviene nell’arte la rappresentazione del serpente tentatore con sembianza femminile.
Testi che vieterebbero alle teologhe e alle bibliste odierne di insegnare. Perciò Mancuso conferma la tesi che è stata la modernità “a far evolvere la coscienza occidentale verso la parità uomo-donna” ed è la modernità “a segnare la più grande differenza tra mondo occidentale e Islam […]”. Proprio il Concilio Vaticano II, evocato dalla Virgili, avrebbe riconosciuto la modernità fra i “segni dei tempi” in cui lavora lo Spirito di Dio e alla fine permetterebbe di anteporre ai testi e alla tradizione il primato della vita umana e la sua fioritura.
La Virgili, avendo a disposizione lo stesso numero di righi, vi investe una logica meno stringante di quella dell’interlocutore. A suo avviso studenti di teologia e insegnanti di religione “sanno che Paolo sulla donna ha detto tutto e il contrario di tutto”. Concorda che in Occidente la sottomissione femminile aveva radici anche nei testi biblici spesso “arbitrariamente utilizzati”.
Ricorda che Lilia Sebastiani, commentando la “Mulieris Dignitatem”, ha scritto che vi si riconosce e ufficializza quanto l’esegesi del Novecento e “soprattutto la riflessione biblica al femminile avevano già evidenziato […] La donna e l’uomo sono creati da Dio come aiuto reciproco e non in vista di una funzione […].” Poi la Virgili si rifà alle provvide famiglie religiose femminili tra il Settecento e il Novecento, alle abbadesse medievali dalla splendida autonomia, all’opposizione recisa del Vangelo contro il ripudio e la lapidazione delle donne. All’auspicio di Mancuso che il bene dell’essere umano preceda l’autorità del testo, la Virgili consente se, esemplando sul detto di Gesù a proposito del sabato, si intende che il testo è per l’uomo e non l’uomo per il testo. E completa: “il testo biblico non va piegato ma capito e fruito nelle sue intrinseche ragioni […] la Scrittura va, certo, liberata e fatta crescere – diceva Gregorio Magno – ma non cestinata.”
Che cosa pensare di questo confronto fra due teologi dal punto di vista dei canoni ermeneutici di Emilio Betti? Bisogna riconoscere che la vastità dell’oggetto della discussione – donna, duemila anni di Occidente e Cristianesimo, san Paolo – sono una sfida per l’ospitalità di un giornale pur generoso.
Mancuso sembra più ferrato e concludente, la Virgili un po’ dispersiva e intimidita. Che il primo dichiari che “anche” dai testi biblici, in particolare dal san Paolo sia dipesa la soggezione delle donne in Occidente apre la via alla domanda: ma da quali altre realtà è soprattutto discesa?
E siamo sicuri che la modernità, secondo Mancuso assunta “in toto” perfino dal Concilio Vaticano II come “segno dei tempi”, abbia liberato la donna dalla sottomissione al potere maschile?
Era una maggiore storia del Cristianesimo, dalle origini ai nostri giorni, che doveva essere squadernata dalla Virgili. Non doveva mancare almeno un riferimento di sostanza alla figura della Madre di Cristo, al Magnificat e alla Donna con Bambino insidiata e messa in salvo nell’Apocalisse, profezia con cui la modernità deve misurarsi sempre di più, ben al di là di ginecìdi e stragi degli innocenti pur tanto abominevoli.
Basilio Gavazzeni
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