Dead men walking, la morte cupa dell’America
Secondo l’ultimo rapporto gli Amnesty International sono 58 i Paesi nel mondo che applicano ancora la pena di morte. Uno solo di essi può essere incluso nel novero delle democrazie occidentali. E la democrazia per antonomasia, gli Stati Uniti d’America. 30 Stati su 50 adottano la pena capitale. Il 40% dei detenuti statunitensi sono afroamericani e la maggioranza di essi, soffrono condizioni carcerarie al limite dei diritti umani.
Nel XXI secolo, nella più grande democrazia del mondo, se sei nero non fai lo stesso carcere dei bianchi. E hai più possibilità di essere condannato a morte. Poco è cambiato dalla storica inchiesta del giornalista Rai Gianni Bisiach del 1966, quando intervistò i dead man walking (il morto che cammina, ndr), gli internati nel braccio della morte del carcere di massima sicurezza di San Quintino in Texas.
Sono passati 50 anni, ma i detenuti neri hanno quasi tutti alle spalle storie di riformatorio e di crack, attendono l’esecuzione per gravi reati contro la persona, spesso compiuti con un grave efferatezza.
Tutti ricordiamo la drammatica e struggente storia di Paula Cooper, la giovane afroamericana che, condannata a morte, per un mostruoso omicidio commesso a 15 anni fu riabilitata grazie alla mobilitazione internazionale ed è morta suicida l’anno scorso. Ora i detenuti che aspettano di essere giustiziati sulla sedia elettrica, oppure con una siringa letale, non hanno più neanche un nome. La nostra buona coscienza viene scossa da film e inchieste, ma poi si riaddormenta nella consapevolezza di una sapida impotenza.
L’anno scorso sono state giustiziate in tutto il mondo più di 1000 persone.
Il triste primato delle esecuzioni negli USA spetta ancora a Texas, immenso Stato con la stella solitaria.
Sull’onda delle lotte per i diritti civili in America, negli anni 70 la pena di morte era stata soppressa e dichiarata incostituzionale tutti gli Stati dell’Unione.
Ma la moratoria durò poco, dopo gli scontri razziali che insanguinarono l’America da est ad ovest, molti Stati adottarono la pena di morte.
Di fronte all’esplodere di fenomeni di inaudita violenza, viene da chiedersi, ma la pena di morte, può essere un deterrente?
Gli Stati Uniti, con il loro complesso sistema di potere, appaiono uno specchio convesso in cui guardare ciò che potrebbe accadere a noi tra 20 o 50 anni.
La risposta che mi viene in mente rispetto alla pena di morte è assolutamente no. Sono stato più volte negli Stati Uniti, a New York, Washington e Philadelphia. La decisione finale sulla pena capitale è lasciata ai singoli Stati, in cui i giudici sono spesso eletti e devono rispondere personalmente o si sentono comunque vincolati all’esecutivo che li ha designati.
Senza contare il più delle volte il verdetto finale è rimesso alle giurie popolari.
La differenza tra la vita e la morte, sta spesso in un’ultima, riuscita arringa difensiva. I neri sono il 12% della popolazione americana e assieme ai bianchi poveri e gli ispanici, molto spesso non possono permettersi una buona assistenza legale. Il 30% di loro ricorre all’avvocato d’ufficio.
Amo gli Stati Uniti d’America, la considero la mia seconda patria, lì sono stato operato, lì a 8 anni, mi hanno insegnato a camminare, facendo di me una persona indipendente, quando nessuno ci credeva in America ho ripreso in mano la mia vita.
Oggi mio fratello fa il prete nel New Jersey, a Plainfield dove riecheggiano le voci della storia americana e dove, sui muri delle case ci sono ancora i segni delle rivolte razziali.
Gli scontri tra bianchi e neri, che, in quel sanguinoso 1977, mentre io imparavo ad usare due bastoni canadesi e a camminare, resero il New Jersey una polveriera. Di fronte alla parrocchia e alla canonica dove ho vissuto per mesi, c’è una centrale di spaccio. Le case sono ormai catapecchie annerite. Nel ghetto nero e ispanico della East Coast, a poco più di un’ora da New York, i neri si rintanano negli slums, aggrappandosi rabbiosamente al Walfare, sussidio dello Stato.
Le famiglie sono spesso formate da madri single con figli avuti da diversi matrimoni o relazioni. La dispersione scolastica è tra le più alte degli USA. Per vedere qualcosa di bello, devi andartene da Plainfield.
Già a Watchu, o a Summit, solo a qualche chilometro di distanza, tra laghi, giardini e conifere si respira un’altra aria. A Plainfield lo scorso Natale non c’era neanche una luce e nel cielo la mattina si respirava marijuana.
Eppure, proprio qui, su queste colline, George Washington sfuggì agli inglesi e preparò la riscossa per l’indipendenza. Philadelphia dista solo un’ora di macchina, ma l’America profonda non la vede e non la sente.
Ho fatto questa breve digressione per descrivere due Americhe che si sfiorano e non si incontrano mai. È nei laghetti come Plainfield che nasce e prospera la delinquenza degli Stati Uniti dai ghetti come Plainfield, disseminati a pochi passi da tutte le grandi città, a ridosso del benessere e di un sogno americano sempre più piccolo, che solo la borghesia ispanica continua a coltivare, che verranno i prossimi capi delle gang, i prossimi candidati al carcere di Lexington o di San Quintino.
Alcuni di loro rischiano, senza nome, di finire nel braccio della morte.
Il prossimo presidente americano, chiunque sarà, dovrà occuparsi anche di questo, di questa America profonda che non riesce neanche più a gridare la sua rabbia, e si attorciglia su se stessa, senza neppure cercare la speranza.
Michele Pacciano