La Fiat, la Russia, la cortina di ferro e Togliattigrad
C’è stato un tempo in cui il mondo sembrava girare più lentamente; un tempo in cui tutto il fluire era scandito da precise regole strutturali, ideologiche e soprattutto politiche.
Anche se è vero che non possiamo scendere due volte nello stesso fiume, che tutto è soggetto al divenire; quindi che tutto cambia, è pur vero che “logicamente” questo divenire è il sostrato su cui tutte le cose si basano; in sostanza esso non cambia, c’è sempre!
Cinquanta anni fa nasceva dal nulla, correva l’anno 1966, la città russa Togliattigrad un villaggio divenuto dopo solo pochi mesi la Manchester del “capitalismo” sovietico.
Era appena scomparso, mentre era in visita, a Jalta, (per chi non ricorda la Crimea; si vedano le foto dei tre grandi vincitori della Seconda Guerra Mondiale Stalin, Churchill e Roosevelt) Palmiro Togliatti ed in suo onore quel piccolo villaggio assunse tale nome.
La Fiat guidata da Vittorio Valletta si lanciava alla conquista del mondo oltre la cortina di ferro. Conquista che avrebbe destato preoccupazione, scalpore e tanta ammirazione. Mentre il deus ex machina dell’operazione Riccardo Chivino stringeva accordi, modificava alleanze, riorganizzava la struttura interna dell’organigramma Fiat, Vittorio Valletta era costretto a recarsi personalmente negli Stati Uniti per tranquillizzare il presidente americano Lyndon B. Johnson affermando che si trattava solo di una
collaborazione economica con fini anche umanitari.
L’operazione destò talmente tanto scalpore da far dire all’ambasciatore americano in Italia che si trattava dell’affare del secolo.
Ma lo fu davvero?
L’avvocato Chivino e il suo staff, che godeva di una libertà trasversale nella Fiat, dovette lottare non poco per arrivare a tali risultati. La collaborazione con i sovietici, ad essere precisi, arrivò in seconda battuta perché prima ancora ci fu la trattativa con la Polonia (dove sarebbe nato un altro ambizioso progetto denominato FSM) e poi la trattativa con il Maresciallo Tito, presidente della Jugoslavia, che sembrava rappresentasse una terza via al concetto di socialismo. Per un certo periodo eravamo guardati dagli altri come un modello da seguire, da imitare, e facevamo invidia al mondo intero.
Avevamo fatto le scarpe a colossi come Ford, Renault, e non soffrivamo di alcun complesso di inferiorità, né economica, né etica e né morale.
Era nato il Fatto in Italia (ossia Made in Italy). Che orgoglio!
Il Bel Paese si sentiva ed era in grado di portare tecnologia, aiutare e assistere il gigante sovietico che aveva contribuito in maniera determinante ad eliminare il nazifascismo dall’Europa.
Ma fu davvero l’affare del secolo?
Purtroppo no! Quello che poteva essere l’inizio di qualcosa di unico non è stato portato a termine. Il seme non è diventato albero, e non è diventato neppure un arbusto.
Lo abbiamo lasciato seccare non perché avevamo fatto il passo più lungo della gamba ma perché abbiamo scelto un telos diverso.
Abbiamo scelto l’utile, l’immediato, rispetto a qualcosa che avrebbe dato frutti su un periodo più lungo. Abbiamo scelto di farci governare più che di governare. Abbiamo firmato patti, stretto nuove alleanze non perché convinti che potessero farci progredire e migliorare, ma perché accecati dalla voglia di far presto e, soprattutto, non bene.
Potevamo essere una Nazione che avrebbe potuto contribuire de facto a portare il benessere nel mondo. Potevamo realmente attuare quel processo di individuazione, che invece non c’è stato! Processo quest’ultimo che ci avrebbe donato statisti e non demagoghi.
Ma le cose cambiano e il divenire è sempre là da venire e non è una speranza.
Carlo Puoti
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