Tempo di influenze, antibiotici pro e contro
Ho letto con molto interesse l’articolo inerente all’uso nel mondo degli antibiotici e sull’uso indiscriminato degli stessi e alla loro non corretta prescrizione ecc…..
Concordo su alcuni punti e mi sento in qualche modo coinvolto nella esposizione critica. Però …
Però, anche in base alla mia esperienza personale di medico ospedaliero prima e di famiglia poi, nonché alle quotidiane discussioni con tanti colleghi, ho notato l’estrema diversità di opinioni nel modo di praticare la medicina nel giornaliero approccio con i pazienti e con la loro insofferenza ed impazienza nell’accettazione della malattia e dei disturbi ad essa correlati.
È anche vero che gli errori che i media imputano sulla prescrizione degli antibiotici partono da lontano, cioè dagli stessi corsi di Laurea, sui quali sarebbe lungo elencare qui l’assoluta inconcludenza scientifica fra teoria e pratica clinica che si ripercuoterà poi su un valido criterio razionale che guidi su scelte ragionate.
Secondo alcuni l’antibiotico è il farmaco più facile da prescrivere e il più difficile da sospendere soprattutto su alcuni tipi di pazienti (anziani e/o cronici). Altro errore è quello di usare un basso dosaggio associato magari ad un prolungamento eccessivo della sua somministrazione; ciò può comportare lo sviluppo di batteri resistenti.
Nei reparti ospedalieri, specie in chirurgia, si tende a prolungare l’antibiotico-profilassi oltre le 24 ore dall’intervento anche per cautelarsi da complicanze infettive. Bisogna però tener conto che la profilassi in chirurgia non è in grado di prevenire le infezioni post-operatorie soprattutto se lontane dal sito chirurgico (es. polmoniti e infezioni delle vie urinarie in pazienti operati di asportazione della colecisti). Anche la consuetudine di dimettere un paziente con antibioticoterapia domiciliare; questa è necessaria solo per una infezione in atto che deve essere specificata sulla lettera di dimissione.
Altri errori che, specialmente sulla stampa vengono imputati ai medici (principalmente quelli di famiglia) sono la scelta dell’antibiotico a spettro d’azione o troppo ridotto o troppo ampio, magari non tenendo conto se il paziente è stato ricoverato o abbia assunto antibiotici nei mesi precedenti o se risiede in qualche struttura o casa di cura.
Qui si apre però un capitolo doloroso e non privo di fraintendimenti. Personalmente, dalla mia esperienza personale e trentennale, devo dire molto onestamente che l’ospedale ed il territorio sono due mondi molto diversi, e questo incide anche sull’appropriatezza prescrittiva.
Lasciando da parte i grandi ospedali dove l’efficienza è di rigore, con tutti i vantaggi del caso, spesso nel nostro Paese i medici di famiglia sono lasciati a se stessi, sempre male osservati dalla pubblica amministrazione che scaricano su di essi ogni colpa dei costi eccessivi della sanità pubblica, ed in balia di cervellotiche disposizioni che ne penalizzano la serenità di giudizio e la piena indipendenza del lavoro professionale.
E siccome la responsabilità del medico è (giustamente) personale e non collettiva, quest’ultimo può trovarsi per prima cosa a doversi cautelare da inghippi legali intentati dai pazienti o dai loro solerti avvocati qualora la riuscita di una terapia non corrisponda alle loro aspettative di pronta guarigione. Spesso inoltre è un miraggio la possibilità di inviare un campione di sangue o di altro liquido biologico in qualche ospedale o laboratorio con la relativa risposta in tempi decenti.
È vero che, soprattutto in tempi di epidemie influenzali sovente l’inizio di una sintomatologia è prettamente di origine virale (e quindi non bisognosa di antibiotici), ma con quale criterio deontologico un medico, dopo 48/72 ore di febbre, ipotensione, tachicardia, in pazienti anziani o affetti da patologie croniche anche se non ha o non può avere reperti dal laboratorio, non prescrive un antibiotico? E quale se non quello, che a suo parere di esperienza pluridecennale, su quei pazienti reputa essere il più appropriato? Anche perché una sovrammissione batterica su una infezione virale è sempre possibile e spesso frequente.
Pur se resta valido il detto: “cicero pro domo sua” credo che il rapporto medico/paziente in ambito territoriale, con tutte le implicazioni psicologiche correlate, sia estremamente complesso e sarebbe ipotizzabile un più stretto rapporto con tutti i principali attori della sanità pubblica. Siamo favorevoli a qualunque iniziativa (simposi, dibattiti, relazioni, conferenze e quant’altro….. che faciliti e renda più sicuro il nostro lavoro, ma comprendiamo anche che molte volte, in medicina, fra teoria e pratica quotidiana, i risultai non sono univoci e devono essere sottoposti alle leggi del tempo e dei grandi numeri.
Enzo Tattini
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