In Italia son pistola all’estero sono eccellenze
L’infelice boutade del ministro del Lavoro Giuliano Poletti a proposito della gioventù italiana riecheggia ancora nelle orecchie.
“Se 100mila giovani se ne sono andati dall’Italia, non è che qui sono rimasti 60 milioni di pistola. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli tra i piedi”. Nel momento in cui Poletti emette tale sentenza neppure immagina il putiferio che avrebbe scatenato a partire dai social.
Dopo che lo hanno strattonato per la giacchetta innesta la retromarcia e china il capo “Mi sono espresso male. Penso semplicemente che non è giusto affermare che ad andarsene siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno qualità e competenze degli altri”.
Scuse non accettate da quasi tutti i giovani, ma pure dai meno giovani.
Per inciso il caro ministro, classe 51, nasce nella da sempre rossa Imola e si diploma da perito agrario, intuisce che con la politica la carriera è più veloce e più produttiva e a 24 anni, nel 1975, si fa eleggere consigliere comunale. L’intuito premia e gratifica. Si siede in Consiglio Comunale e da allora non si è più alzato da sedie e poltrone. Segue tutta la trafila carrieristica, diventa consigliere provinciale ed entra nelle stanze dorate delle coop romagnole, nel 1989 diviene presidente della Legacoop di Imola, nel 1992 presidente dell’Ente di Formazione di Legacoop Emilia Romagna, ancora una presidenza all’Esave, Studi e promozione viticoltura ed enologia dell’Emilia Romagna. Oramai è diventato bravo ed esperto oltre che conoscitore dell’ambiente e relativi labirinti. Nel 2000 il gran salto di qualità: presidente regionale della Legacoop e vicepresidente nazionale.
Ad un certo punto le presidenze diventano come i grappoli di ciliegie, ne arrivano una dietro l’altra, gli affidano anche la Coopfond.
Trasmette gli insegnamenti al figlio Manuel il quale mette su una cooperativa ed apre un giornale, Settesere, che in tre anni – dal 2013 al 2015 – riceve qualcosa come 500 mila euro di contributi da Roma. Nel 2013 Matteo Renzi affida a Giuliano Poletti l’incarico di ministro del Lavoro, evidentemente ha operato talmente bene che Paolo Gentiloni lo riconferma al dicastero.
Se il dna dei Poletti è un concentrato di capacità politica e di intuito arrampicatore per tanti altri lo stipendio devono guadagnarselo magari valicando le Alpi. E tra questi ci sono “pistola (o pirla, che dir si voglia)” come pure giovani che non potendo contare su un albero genealogico nobile e decorato o che per sfuggire alle baronie universitarie preferiscono emigrare pur in possesso di intelletto e onestà.
Naturalmente se in Italia il termine “meritocrazia” nell’apparato pubblico è un termine pressoché inusuale e sconosciuto, di là dai confini diventa un vocabolo apprezzato e tenuto nella massima considerazione.
L’anno passato 30 studenti italiani si aggiudicano il bando Erc, European Reserch Council, indetto da Bruxelles. Di questi 30 premiati ben 17 non stanno “tra i piedi”, per dirla alla Poletti. Per ogni grant o premio ricevono circa due milioni di euro cadauno per proseguire gli studi e le ricerche.
L’ex ministro Stefania Giannini si complimenta pubblicamente con loro, in particolare con le donne, ma la 42enne Roberta D’Alessandro, all’estero da sedici anni e da nove in Olanda, dove insegna all’Università di Leiden, non incassa in silenzio e risponde a muso duro sul proprio profilo facebook. “Ministro, la prego di non vantarsi dei miei risultati. La mia Erc e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia non ci ha voluto, preferendo, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi Erc non compaiono, né compariranno mai. E così, io, Francesco e l’altra collega Arianna Betti (che ha appena ottenuto altri due milioni di euro anche lei, da un altro ente), in due mesi abbiamo ottenuto sei milioni di euro di fondi, che useremo in Olanda. L’Italia ne può evidentemente fare a meno. Prima del colloquio per le selezioni finali dell’Erc, ero in sala d’aspetto con altri tre italiani. Nessuno di noi lavorava in Italia. Immagino che qualcuno di loro ce l’abbia fatta, e sia compreso nella sua “lettera personale” della statistica. Abbia almeno il garbo di non unire, al danno, la beffa, e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono. Proprio come noi. Vada a chiedere alla vincitrice del concorso per linguistica informatica al Politecnico di Milano (con dottorato in estetica, mentre io lavoravo in Microsoft), quale grant ha ottenuto. Vada a chiedere alle due vincitrici del concorso in linguistica inglese, specializzata in tedesco, che vinceva il concorso all’Aquila (mentre io lo vincevo a Cambridge la settimana dopo) quanti fondi ha ottenuto. Sono i fondi di queste persone che le permetto di contare, non i miei”.
Stefania Giannini non viene riconfermata dal neo premier Gentiloni e torna a casa.
Il 13 dicembre scorso sono addirittura 38 i ricercatori italiani vincitori di fondi Erc, ci precedono solo i tedeschi con 50 grant. Ma questi 38 contributi non rimarranno in Italia, ben 24 andranno all’estero e solo 14 rimarranno nei nostri atenei perché quei 24 collaborano con atenei esteri. Se li sono aggiudicati due il Politecnico di Milano, poi il San Raffaele di Milano, la Bocconi di Milano, l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, l’Iit di Genova, l’European Institute di Firenze, e le università di Roma Tre, La Sapienza, Firenze, Trento, Perugia, Torino e Bologna. Gli atenei al sotto della capitale assenti come da consuetudine, il Sud è indaffarato su altre questioni.
È la storia che si ripete. L’apparato pubblico è inefficiente e clientelare, chi ha voglia di emergere e non può contare su parenti e amici è invogliato a trasferirsi oltre confine.
I giovani troppo spesso sono stati considerati un problema dai politici e quasi mai una risorsa, tranne rarissime eccezioni. È sufficiente andare all’estero per scoprire una realtà un tantino diversa.
Anselmo Faidit
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