Orlando furioso, amore, incontro e ironia a Ferrara
Delle donne, e i cavalier, l’arme e gli amori, io canto …
Quando cominciò a scrivere, nel 1505, i primi versi del suo poema in ottava rima, nelle quiete e burrascose stanze della corte estense, a Ferrara, Ludovico Ariosto certamente non immaginava della grande modernità che stava approntando e che ora riesplode nella bellissima mostra: “Orlando furioso, quello che vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi”, allestita a Palazzo Diamanti a Ferrara, e, dopo un grande successo, prorogata fino al 29 gennaio.
La costruzione scenica e drammaturgica della narrazione, si muove lungo tre filoni principali, da un lato l’amore mai completamente consumato tra il paladino Orlando e la bellissima e ineffabile Angelica, dall’altro gli echi della macrostoria, sapientemente banalizzata e diluita nella guerra che il re africano Agramante dichiara a Carlo Magno.
Nel terzo filone, più in ombra, come si conviene alla rifrazione della luce, che si vuole rifulga di più, si affaccia e sboccia l’amore contrastato e passionale tra la guerriera cristiana Bradamante e il saracino Ruggiero, dopo che il moro si sarà convertito per amore, al cristianesimo, dalla loro unione nascerà la stirpe degli Estensi.
Questi sono solo i paramenti ufficiali di una saga che supera il tempo e lo spazio e dice molto di più delle sue bellissime apparenze, fino ad arrivare al teatro dei pupi che è patrimonio popolare della Sicilia e non solo.
Non a caso Ariosto non ha eredi, ma l’unico che può stargli alla pari, non solo per contemporaneità, ma per vicinanza di tematiche di stilemi, è il grande Miguel de Cervantes con il Don Chisciotte della Mancia.
Il poema di Ariosto è altamente allegorico e satirico di una civiltà che non c’è più. L’ambientazione cavalleresca è solo un pretesto letterario per parlare dei vizi umani, che sono analizzati con pungente sagacia e grande introspezione psicologica dei personaggi che si esplica soprattutto nel pathos erotico, senza mai rinunciare, anche nei personaggi minori, ad una velenifera punta di humor nero.
Come avviene nella famosa descrizione del monaco eremita, che, custode di Angelica, non riesci a resistere al suo fascino intrigante, ma poi deve mestamente cedere alla sua vecchiaia incipiente.
Il sesso non è sottaciuto e sotteso, ma anzi viene esplicitamente adombrato in tutti i 46 canti di cui si comporrà l’edizione definitiva del 1532.
Ariosto prende in giro una cavalleria al tramonto sulla quale proietta le vicende di guerre intestine che dilaniavano il suolo italiano e contro le quali, il pur lussuoso ritiro dei palazzi ferraresi, doveva apparire al poeta, un rifugio ben precario.
Non si suggeriscono soluzioni alla guerra di civiltà che contrappone musulmani e cristiani, nessuno sembra crederci più.
Forse in un mondo vagheggiato, ma non certo inseguito, o cercato, solo l’amore si rivelerà via di salvezza per gli uomini, al di là dei confini, ma l’autore sembra drammaticamente cosciente di come i due mondi non possono incontrarsi, se non in un sogno illanguidito se non si confronta con la realtà.
Il destino dell’uomo, è ancorato solo e soltanto alla fortuna, al caso, non c’è nessun Dio o eroe a proteggerlo. Le divinità, sono lontane ed evanescenti, quando si ritrovano, albergano solo nel cuore innamorato di ogni singolo individuo.
Il paladino Orlando, dopo aver inseguito invano Angelica, la vede perdutamente innamorata del saraceno Medoro, con il quale è inciso, sulla corteccia di un albero il proprio nome. Il cavaliere, come spodestato dei propri sogni e della propria civiltà, impazzisce e questo è il tramonto di qualsivoglia possibilità di dialogo tra le genti che vivono al di là e al di qua del Mediterraneo.
È vero che l’amore tempestoso tra Ruggiero e Bradamante, moro lui e cristiana lei, darà vita alla fulgida stirpe degli Estensi, ma è Ruggiero a dover pagare il prezzo più alto e a convertirsi al cristianesimo. Come dire: si può convivere, a patto che qualcuno dei due ceda e vada verso l’altro, abbracciandone regole e il credo.
Non sembra un concetto molto moderno?
L’unica cosa che il poeta parrebbe salvare, tra le macerie di un mondo destinato a crollare irrimediabilmente, per fare felicemente posto all’uomo borghese ed illuminato del Rinascimento, affascinato e conquistato dalle nuove scoperte, è il sentimento dell’amicizia.
Sarà infatti l’amico Astolfo a salvare Orlando, avventurandosi in un immaginifico viaggio sulla luna e attraversando, a bordo del cavallo alato l’Ippogrifo, la valle in cui vengono ammucchiati tutti i cervelli degli uomini che hanno perso il senno.
Per ritrovare se stessi gli uomini devono quindi ritornare in cielo, ricercare una nuova dimensione etica individuale, ancora una volta risalendo le proprie origini, che dal cielo discendono e al cielo devono ispirarsi e richiamarsi.
Un finale estremamente attuale.
Da riscoprire nella immaginosa mostra di Palazzo Diamanti.
Michele Pacciano
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