La sequela di Dietrich Bonhoeffer
Un saggio su Dietrich Bonhoeffer conclude “Sogni antichi e moderni” di Pietro Citati, Mondadori 2016. Dietrich nacque nel 1906 dentro una grande famiglia. La madre apparteneva ai von Hase, aristocratici luterani contigui alla corte imperiale. Il padre neurologo e psichiatra non si riconosceva cristiano. Dietrich con i sette fratelli, tra i quali la gemella Sabine, visse in belle case respirando cultura di ogni genere. A Citati piace elencare: teologia, musica, filosofia, psicologia, psichiatria, fisica, pittura, scultura. A otto anni pianoforte e spartiti furono a disposizione di Dietrich. Suonava Mozart, componeva, improvvisava a memoria. A 14 anni ebbe l’impressione di essere preso da Dio. Deciso a divenire teologo, conseguì il dottorato a Berlino, dopo essere passato da Tubinga. Aveva ventun anni. Nella tesi di laurea “Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della Chiesa” sostenne che oggi la comunità è il modo con cui Cristo ci è accessibile: è “Cristo esistente come comunità”. In quella stagione il teologo eminente era Karl Barth. Bonhoeffer non poteva non essere sensibile alla sua teologia dialettica e quello non poteva non accorgersi del nascente astro teologico.
Presto Bonhoeffer, dedicandosi incondizionatamente alla Bibbia, si liberò da ogni ambizione mondana. Lo humour e il riso che lo rendevano affascinante, man mano lui penetrava assiduamente nella rivelazione e cercava in particolare Cristo, si trasformarono in un’ autentica gioia, “qualcosa di incomprensibile, sia per gli altri sia per chi la sperimenta”.
Annunciare il Vangelo era un bisogno che l’aveva accompagnato fin da principio. La passione si fece travolgente mentre edificava la sua teologia. Karl Barth non era mosso da eguale ansia pastorale? Predicare, predicare! Scriveva: “Gli esseri umani hanno bisogno di pastori: Cristo era il pastore, noi dovremmo essere pastori di uomini mediante lui e come lui.” In un soggiorno a Barcellona predicò ai bambini, e a New York ai figli degli operai in vista della cresima.
Il 6 settembre 1930 era partito per gli Stati Uniti. Vi rimase dieci mesi. Scoprì un mondo povero di cristianesimo. Udiva parlare di tutto tranne che del Vangelo di Gesù Cristo e del suo mistero. Nessuna teologia autentica, nessuna conoscenza delle verità essenziali. Liberalismo e umanesimo, etica e sociologia in sovrabbondanza, ma Cristo era come evaporato. Fu consolante per lui scoprire che nelle chiese dei neri era vivissimo il Vangelo praticato. Negli spirituals Bonhoeffer “ritrovò la voce della Bibbia e di Lutero”.
Con l’incarnazione Dio era disceso nella realtà del mondo. A Cristo, l’Incarnato, niente di umano era estraneo. Scandalo per i potenti e i sapienti, lui aveva voluto essere presente in ciò che era piccolo, insignificante, debole, aveva camminato fra i peccatori, sulla strada avviata inesorabilmente alla croce, mai pensando di essere abbandonato da Dio, trasformando il mondo. Citati si sofferma a lungo sulla centrazione cristologica di Bonhoeffer, sull’ascolto della Parola che lo seduceva con il suo splendore, ne sconvolgeva il cuore e lo preparava, durante ore di profonda solitudine, a una salita impervia.
Bonhoeffer si dovette ritrovare nella vocazione del profeta Geremia che aveva riconosciuto: “Signore, mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto forza e hai prevalso”. Come quel profeta avanzava a grandi passi nella tragedia proprio della fedeltà alla chiamata. Le sue parole “diventavano strane e inflessibili: a volte incomprensibili dal punto di vista umano e psicologico.”
Nel 1937 Bonhoeffer pubblicò “sequela”, frutto delle lezioni che aveva tenuto a Finkenwalde nel seminario per predicatori della chiesa confessante. Il libro combatteva l’idea della “grazia a buon mercato”, che non costa nulla, lascia immutata la vita del peccatore, addirittura giustifica il peccato. Nella prima parte, applicandosi a una lettura senza compromessi del discorso della montagna, mostra il prezzo da pagare alla sequela di Cristo nella fede e nell’obbedienza e la conseguente rottura con il mondo, un tutt’uno di cui, nella seconda parte, con l’ausilio di san Paolo, si lumeggiano le ricadute sulla definizione di Chiesa. C. Tietz-Steiding lo definisce “un documento eloquente delle riflessioni teologiche fatte dall’opposizione ecclesiale al tempo del nazismo.”
Jean Guitton ebbe a scrivere che un vero teologo è tale già a trent’anni. In Bonhoeffer tuttavia pulsava ben più di un teorema delle cose divine. “Seguimi”, l’invito di Gesù non dava tregua a lui stesso, pastore della chiesa confessante, nella Germania ormai infestata dal nazismo. Preannunciava il dovere di una rottura. Ormai nessun vincolo era possibile a Dietrich che non fondasse sulla mediazione di Cristo.
Citati osserva: “Proprio per questo, le amicizie di Bonhoeffer erano così totali e appassionate: perché nascevano da una freddezza originaria, e perché Cristo era il mediatore nascosto che le rendeva possibili e ardenti.” Secondo Citati, mentre sulla Germania calavano anni di cecità forieri di sventura, Bonhoeffer ebbe per un verso il sentimento che fosse troppo tardi, ma per un altro la convinzione che si dovesse imporre l’identità di morte e di vita nella croce di Cristo. Ai suoi occhi da una parte si perdeva la chiesa mondanizzata, dall’altra si stagliava quella eretta in Cristo, sotto la responsabilità di Dio.
Già dal 1932 Bonhoeffer aveva denunciato la deriva della chiesa confessante giunta alla sua undicesima ora. “Qui rimango, e non posso fare altrimenti”: la celebre dichiarazione di Lutero veniva abusata. Dietrich auspicava che tutta la cristianità impetrasse “la resistenza fino al sangue e vi fossero uomini capaci di tanto”. Così non avvenne. I cosiddetti cristiano-tedeschi in camicia bruna dominarono nel Sinodo nazionale luterano del 5 settembre 1933. Due mesi dopo, in ventimila, si riunirono allo Sportpalast di Berlino sbandierando e berciando a una voce: “Un solo Reich. Un solo Popolo. Una sola Chiesa.” Rigettato l’Antico Testamento, conformato al nazionalsocialismo lo stesso Gesù, scartata la croce, assimilati dalla Gioventù hitleriana i giovani credenti, obbligati a giurare lealtà e obbedienza al Führer i nuovi pastori, la chiesa confessante precipitò in un abisso.
Nemmeno Karl Barth osava contrapporsi. Solo Bonhoeffer e pochi amici avevano compreso. Non c’era nessuna possibilità di compromesso. Nulla c’era da spartire con una chiesa tralignante. Bonhoeffer per compiere la volontà di Dio, sormontando la sua sensibilità di pastore, partecipò a due cospirazioni contro Hitler.
Alla fine del 1942, trentaseienne, aveva conosciuto la diciottenne Maria von Wedemeyer, anche lei dell’aristocrazia luterana. Fu un amore appassionato e delicatissimo mentre l’Europa era messa a ferro e fuoco e venivano consumati delitti abominevoli.
Bonhoeffer era spiato dalla Gestapo. Il 15 aprile 1943 venne rinchiuso nel carcere militare di Tegel presso Berlino. Seguirono mesi colmi di preghiere. Rilesse più volte l’Antico Testamento. Scrisse lettere alla fidanzata, ai genitori e agli amici, tra i quali E. Bethge che un giorno le divulgherà e sarà il suo biografo.
Non ancora ritenuto colpevole, essendo protetto dall’ammiraglio Canaris e dallo zio Paul von Hase comandante militare di Berlino, conservava il suo carattere felice ed era appagato dalle piccole gioie possibili nella sua condizione. Citati rileva che “proteggeva la gioia con la pazienza e la pazienza con la speranza.” E ne riporta questa dichiarazione: “Non delle nostre speranze ci dovremo un giorno vergognare, bensì della nostra meschina e ansiosa mancanza di speranza, che si contenta di questa terra.”
È il caso di integrare il saggio del nostro grande critico. In realtà a partire dal 30 aprile 1944 Bonhoeffer cominciò a scrivere a Bethge alcune idee teologiche che aveva ruminato a lungo. Partiva dalla questione “chi sia veramente per noi oggi Cristo”. Constatava che “gli uomini così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi”.
Impossibile per lui ormai la religione che concepiva Dio esterno al corso del mondo e che lo cercava soltanto intimisticamente nelle ultime questioni riguardanti l’uomo.
Bonhoeffer voleva trovare Dio nel mezzo della vita. Un Dio pronto a ricordare all’uomo di essere responsabile di questo mondo. Un Dio in croce, senza potenza, sofferente come un escluso. Essere cristiani significava soffrire con questo Dio trafitto dal mondo e vivere come se Dio non esistesse. Era l’abbozzo di una nuova teologia che oggi ancora pungola molti pensatori.
Dopo l’attentato fallito di Klaus von Stauffenberg, l’8 ottobre 1944, Bonhoffer fu trasferito nella prigione sotterranea della Gestapo a Berlino. Con un saluto natalizio in sedici versi per Maria, i genitori e i fratelli, si diceva circondato e soccorso da “potenze benigne”. Il 2 febbraio fu condannato a morte. Il 7 febbraio fu condotto a Buchenwald. Il 3 aprile 1945 con altri fu condotto a Flossembürg. Fu impiccato il 9 aprile, all’età di 39 anni. Il medico del lager ebbe a dichiarare: “Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio”. Il giorno prima, domenica “in albis”, nel servizio religioso richiestogli dai compagni di prigionia, aveva commentato un passo del profeta Isaia: “Per le sue lividure noi abbiamo avuto la guarigione”. Ritirandosi aveva detto: “Questa è la fine”. Poi: “Per me è l’inizio della vita”.
Non possiamo non provare riconoscenza per Citati che a conclusione di una splendida raccolta di saggi ha fatto memoria di un cristiano simile.
Basilio Gavazzeni
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