Palermo, capitale e culla di due mondi
“Passeggiando non torna essere garbato e presentabile come cittadini di Palermo allineati corridori sotterranei dei Cappuccini a Porta Nuova. Stanno là allineati e rinsecchiti e godono la stima di tutti”. (Thomas Mann, La montagna incantata)
Palermo ha una bellezza rossa e corrusca, proprio come il porfido vermiglio che circonda la bara di Federico II lo “Stupor mundi”, il più grande ed enigmatico imperatore che il Sud abbia mai avuto, che qui riposa nella bellissima cattedrale, quasi a sancire un legame intimo e indissolubile tra questa terra e i Normanni che la conquistarono e la fecero grande, dagli Altavilla a Ruggero II, che costruirono e perpetrarono il mito di una Sicilia terra d’incontro e di unione tra le due sponde del Mediterraneo.
La sua storia millenaria di paladini cavalieri e maestri arabi si spande e si rinnova nel profumo delle zagare. In nessun luogo, come qui, vita e morte si rincorrono così vicine, quasi in un magnifico gioco di ombre cinesi.
C’è tutto questo e molto altro nella decisione di proclamare Palermo capitale italiana della cultura 2018.
Fierezza di riscatto, condita delle bellezze incomparabili della Cattedrale di Monreale, un unicum al mondo in cui l’architettura moresca sposa le linee sinuose di un cristianesimo intriso di dolori e di passioni che vengono direttamente dai monaci basiliani e da una religiosità che si tinge di mistero nei cimiteri e nelle cripte in cui il racconto di storie e di aneddoti si fa arte, come nel museo del giocattolo e delle cere, o nelle catacombe dei cappuccini, che conservano ancora i corpi intatti e mummificati di un mondo che fu, dell’antica nobiltà e di vite strappate ancora bambine.
Palermo è un Ethos che si arrampica e si insegue, tra dramma e verità, tra storia e leggenda, perduta e riacciuffata tra i pupi e i beati Paoli.
Nella città vecchia si odono ancora gli echi di Giovanni Verga e Luigi Capuana, di Federico de Roberto e Vitaliano Brancati, di Gesualdo Bufalino, Leonardo Sciascia e Renato Guttuso.
Ogni pietra qui parla di una storia dimenticata su cui si erge, monumentale, il mito del Principe di Salina, quel Gattopardo che la cultura ufficiale non volle accettare, come non riuscì pienamente a comprendere a metabolizzare la grandezza dei vinti, in una narrazione monca e sanguigna, che parla e scrive sempre dei vincitori.
Palermo è questo: è la figlia ribelle e indomita di una contro storia, di una storia Altra. Palermo è una città garibaldina e brigantesca, contadina e barocca, araba e tunisina,
nel suo intricato tessuto di vite in cui si ritrovano i volti di quelli che oggi sono i pescatori di Mazara del Vallo, ma che ieri furono i bey del Nordafrica che rivivono nelle tele negli arazzi delle case signorili e che punteggiano ancora le strade lastricate di pietra.
Palermo è anche i quartieri della Kalsa e della Vucciria, del mercato di Ballarò, dove sono nati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, dove preti di frontiera e volontari di lungo corso lottano ancora per tenere aperta una biblioteca e dove una parrocchia prova a coltivare la speranza di un futuro che poggia sulle spalle dei ragazzi, dove le terre confiscate alla mafia producono arance e limoni esportati in tutto il mondo e dove i maestri di strada fanno scuola negli scantinati agli adolescenti delle borgate e ai bambini del quartiere Zen, cercando di non farli cadere nelle mani della criminalità.
L’ombra della mafia cambia pelle e si allunga silente e minacciosa su una città che soffoca, ma prova a reagire.
Palermo è una frontiera dove si spara ancora, Palermo è un bunker ovattato, dove i giudici rischiano la vita in trincea, contro un nemico invisibile, che magari veste Prada e si accomoda su poltrone cremisi.
Palermo è i tanti carabinieri e poliziotti che non hanno la benzina per le gazzelle e lavorano ogni giorno nel silenzio dimenticato dal battage mediatico.
Palermo è il Teatro Massimo, che vide i trionfi di Bellini, e di Mascagni, dove la Lucia di Lammermoor non si arrende alla protervia romana.
Al di là della retorica Palermo è un bellissimo pezzo d’Italia, è una scommessa di un orgoglio ferito e rattrappito che si risveglia in nome di una cultura millenaria e ci fa ancora gridare, ora e sempre, come Peppino Impastato: “Sono italiano, sono siciliano!”.
Palermo costruisce ponti, non erge muri.
Michele Pacciano
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