Isabella Lövin e Masih Alinejad due donne distanti
Masih Alinejad è venuta al mondo l’11 settembre 1976 in un villaggio nei pressi del Mar Caspio e non troppo distante da Teheran. All’anagrafe la registrano come Masoumeh Alinejad però preferisce utilizzare il nome Masih, Messia, che è il nome di Gesù di Nazareth nell’islam.
A 18 anni viene arrestata per aver distribuito volantini contro il governo. Nel 2001 abbraccia la professione del giornalismo, segue la trafila e diviene giornalista parlamentare. Nel 2005 pubblica un articolo col quale denuncia i politici nazionali di aver intascato ingenti somme di danaro come bonus fittizi, articolo che in Occidente rimane nel silenzio. La notizia solleva un polverone che la travolge e produce l’effetto di allontanarla dal Parlamento.
Per nulla rassegnata e addomesticata nel 2008 esce un altro pezzo su un quotidiano della capitale in cui spiega che il presidente Mahmoud Ahmadinejad si comporta come un allenatore di delfini che corrono dietro al loro coach per ricevere la dose giornaliera di cibo. Il direttore della testata si scusa.
L’anno successivo Masih Alinejad ottiene il permesso di soggiorno negli Stati Uniti come giornalista, nelle intenzioni vi è il desiderio di intervistare Barack Obama. Il desiderio rimane nel cassetto. Il 25 luglio 2009 partecipa a San Francisco ad una manifestazione di donne iraniane, sale sul palco e rivolta al governo scandisce “Abbiamo tremato per trent’anni, ora è il vostro turno di tremare”.
Scade il permesso e non riceve il rinnovo ed allora si trasferisce in Inghilterra. Lavora e studia e nel 2011 si laurea in Comunicazione, Media e Cultura alla Oxford Brookes University. Si rende conto, a questo punto, che il resto della sua vita lo deve trascorrere lontano dal suolo natio.
Il 24 febbraio 2014 a Ginevra le conferiscono il riconoscimento Women’s Right Award (Premio dei diritti delle donne) per le sue battaglie a favore dei diritti delle donne in Iran, per aver creato una pagina su facebook ove invita le donne iraniane a pubblicare immagini di se stesse senza il velo, a dispetto di quelle che sono le imposizioni governative.
Circa un mese prima, il 25 gennaio, Emma Bonino, ministro degli Esteri in carica sotto il governo Enrico Letta, si reca a Teheran per incontrare i rappresentati del governo iraniano.
Al momento dell’atterraggio le si presentano dei funzionari governativi con tre foulard tra i quali deve scegliere quale indossare prima di mettere piede sul suolo iraniano. La Bonino, colta di sorpresa, inizialmente rifiuta, così riportano i media di Teheran. Si susseguono contatti diplomatici tra le ambasciate e ministeri. Mohammad Javad Zarif, responsabile del dicastero iraniano, si rifiuta di insistere e comunica al capo del protocollo che qualora la Bonino si rifiuta di indossare il velo se ne può tornare a Roma e di conseguenza tutti gli incontri programmati verrebbero annullati. Emma Bonino, appartenente al Partito Radicale, china il capo e indossa il velo.
Torniamo a Masih Alinejad. In pochi mesi su facebook la seguono in 760.000, nella maggioranza donne ma anche uomini che la incoraggiano nelle sue battaglie per la civiltà, per i diritti umani e per la libertà.
Sul suo profilo torna spesso indietro negli anni per rammentare l’aggressività che utilizzavano i politici nei suoi confronti ogni qual volta poneva delle domande fuori dall’ortodossia islamica “Zitta tu, prima di parlare vatti a sistemare i capelli”. Capelli ispidi, ricci, pungenti. Capelli che sono divenuti la sua bandiera e quella di migliaia di sue connazionali. In Iran, e non solo, quando vogliono zittire una donna non attaccano le tue opinioni, mirano alla tua sessualità “Ti chiamano brutta, scimmia, prostituta e roba del genere, che sei drogata e perversa, mi hanno diffamata in ogni maniera”.
Il 6 settembre 2016 convocata al Parlamento Europeo rivolgendosi alla britannica Catherine Ashton, ex commissaria al Commercio, e a Federica Mogherini, commissaria agli Affari Esteri e alla Sicurezza, non usa mezze frasi e politichese.
“Chiedo ad Ashton e Mogherini e a tutte le donne politiche di mantenere la testa alta in nome della propria dignità. Perché se il nostro governo visita l’Europa e voi chiedete alla donna politica di «togliersi il velo» loro ve lo contesteranno. Loro non diranno «è la legge, dobbiamo rispettare la legge» oppure «è la cultura di qui e noi dobbiamo rispettare la cultura». Ecco perché io sostengo che le donne politiche europee sono ipocrite. Perché rimangono al fianco delle donne musulmane francesi e condannano il divieto del burkini, è un pretesto perché è sbagliato costringere le donne a fare qualcosa, ma quando si tratta dell’Iran loro pensano solo ai soldi. Le donne politiche europee vengono nel mio paese e ignorano milioni di donne che mi inviano le loro foto e si pongono in condizione di pericolo solo per essere capite e ascoltate. Le donne politiche europee continuano a sorridere, indossano l’hijab e ripetono che quella è prettamente una «questione di cultura», questo è del tutto falso. Si tratta del simbolo più visibile di oppressione, e noi dobbiamo restare insieme e abbattere quel muro”.
Masih Alinejad dixit.
Veniamo ad altre donne che sostengono di appartenere all’ideologia di sinistra. Questa volta sono quelle della Scandinavia, di quella Svezia emancipata e progressista.
Isabella Lövin, classe 1963, eurodeputata col Partito Ambientalista i Verdi nella VII legislatura e dal 2014 a Stoccolma ministro della Cooperazione internazionale nel governo Stefan Löfven. Diviene famosa a livello planetario per aver pubblicato una sua foto di sole donne in risposta ad una precedente di di Donald Trump con soli uomini nello studio ovale. “Siamo un governo femminista e questa foto lo dimostra”, il ministro con il volto arcigno in primo piano ad assicurare che il Trump a stelle e strisce non lo temono. Questo accadeva il 3 febbraio 2017.
Trascorrono dieci giorni e la signora Lövin si reca in Iran col gruppo delle femministe immortalate nel quadretto. Tutto il globo è convinto che le signore proseguiranno a mostrare i muscoli facciali e a difendere strenuamente le loro filosofie sul femminismo. La convinzione si trasforma rapidamente in delusione perché le prime immagini che giungono da Teheran evidenziano la mancanza di coerenza e di colonna vertebrale da parte di Isabella Lövin e delle sue colleghe di governo. Tutte coperte dal velo e con viso sottomesso.
Per qualche etto di greggio oleoso di idrocarburi hanno barattato ideologie, valori, battaglie morali e foto anti Trump.
Ideologie, valori e battaglie alle quali Masih Alinejad non rinuncia.
Un calcio al proprio passato e alla propria storia l’ha sferrato anche il Real Madrid, la gloriosa società sportiva spagnola ha eliminato dal proprio logo e dal proprio stemma la croce in cima alla corona che gloriosamente portava dal 6 marzo 1902. Pure in questo caso è per una manciata di danari. A settembre 2014 il Real firma un contratto vantaggioso con la National Bank di Abu Dhabi e per “evitare di offendere o mettere a disagio i clienti musulmani” i dirigenti madrileni preferiscono modificare il proprio stemma. Tornano in mente la coerenza, la colonna vertebrale e le braghe.
La rivoluzione islamica del 1979 in Iran partorì il divieto di vendere e indossare cravatte poiché queste simboleggiano la decadenza morale dell’Europa e dell’Occidente.
Il protocollo delle cravatte con le delegazioni è sempre stato ignorato. Non è facile stabilire se si tratta di furbizia, di opportunismo, di ipocrisia o di cosa. Boh.
Anselmo Faidit
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