Quell’aberrazione della dolce morte
La grandezza della morte merita ritrazione e comprensione.
Non mi permetto di giudicare il gesto di Fabiano Antoniani che è salito al cielo mordendo un pulsante, mentre tutti cercavano, giornalisti compresi, di costruirgli attorno un dolce viaggio. La morte non è mai dolce. Quella morte in particolare, consumatasi per suo proprio volere, in un’anonima e asettica clinica svizzera, ci lascia un silenzio greve e arrancante che ci chiude lo stomaco e ci interrogavia tutti, mettendo a nudo la nostra comune impotenza.
Potrei appellarmi ai dogmi di fede, ma invece, chiamo in soccorso solo il buon senso e mi chiedo, che cosa non abbiamo fatto perché Fabiano non arrivasse a quella determinazione? Quanto lo abbiamo lasciato solo, incapace di sorreggere, di comprendere un dolore che nessun essere umano può sopportare?
Dov’eravamo noi cristiani quando ha provato il gelo, il silenzio di Dio di una vita distrutta? Nessuno di noi è stato capace di fargli vedere assaporare l’amore di Dio?
Stiamo attenti a proclamare il diritto di ognuno a gestire la propria vita, frasi come questa possono portare ad aberrazioni inimmaginabili, al di là della pietas che si può provare per il caso concreto.
Dopo un ictus celebrale mio padre era diventato completamente afasico e difficilmente sembrava presente a se stesso. Non era assolutamente capace di autogestirsi e sono sicuro che se fosse stato in grado di parlare mi avrebbe più volte chiesto di porre fine alla sua vita. I ruoli si erano irrimediabilmente capovolti, dopo avermi curato e accompagnato alla vita per anni, adesso era lui la persona disabile da accudire.
Non riuscivo ad accettare questa nuova situazione, non ero capace di metabolizzare il dolore e l’effetto angoscia. Eppure rimanevo l’unico contatto empatico che mio padre avesse con il mondo, e questo tramite mi pesava moltissimo.
Solo con me riusciva realmente a comunicare, solo a me si interessava sul serio, con un senso di iperprotezione che, senza ormai alcun freno inibitore, diventava patologico e patogeno.
Ha vissuto così per 4 anni, non so se quella fosse vita, ma so che a me ha insegnato che il dolore si stempera quando guardi negli occhi le persone che hai di fronte. Non riuscivo ad accettare che quell’essere inerme e inerte forse il mio padre, che per me era stato Dio in terra, ma quando ritrovavo i suoi occhi, rivedevo la sua luce. Questo è l’esempio più lacerante e drammatico che possa farvi, ma ne avrei tanti altri.
A volte non si vive per se stessi, ma per dire e per dare qualcosa agli altri.
Non azzardo giudizi, o analisi sociologiche. Vi dico solo che basta un niente per elevare l’asticella verso frontiere dalle quali poi non si può tornare indietro. Sarebbe troppo facile e retorico ricordare che la campagna di eutanasia contro le persone disabili, cominciò nel 1933 in Germania da una semplice legge di sterilizzazione, per arrivare poi alla morte pietosa.
Noi siamo democratici, abbiamo strumenti cognitivi molto più alti, però la mente umana è facilmente manipolabile specie quando ci si sente buoni medici e non si fa appello a quel buon senso di cui accennavo in precedenza, ma si crede in verità scientifiche e non rivelate.
Ognuno è libero di togliersi la vita, per paradosso, questo può essere visto come la massima espressione del libero arbitrio che Dio ci concede, ma non si può chiedere ad uno Stato l’autorizzazione alle pratiche di eutanasia. Non si può chiedere ad una legge di uccidere una persona e di ammazzare la speranza. Stiamo attenti, tutti.
Se fossi nato in Germania negli anni Trenta o Quaranta, nella terra di Hegel, Kant Thomas Mann e Heidegger, non avrebbero nemmeno perso tempo a gasarmi. Mi avrebbero soltanto fatto una innocua puntura d’aria, in una delle cinque anonime cliniche specializzate per lo sterminio sistematico dei disabili. Non si poteva ammettere che una persona con deficit neuromotorio, potesse essere anche una risorsa, intelligente, produttiva e vitale. Le persone come me, con una tetraparesi, erano una contraddizione in termini. Andavano eliminate, dolcemente e scientificamente.
La Chiesa si oppose a questa strage inumana e silente. Il cardinale di Colonia, monsignor August von Galen, insieme ai pastori protestanti, tuonò contro la barbarie nazista e nel 1941 il progetto T4, così si chiamava, il programma di eutanasia dei disabili, fu sospeso, ma solo formalmente. L’eutanasia continuò in silenzio. I disabili furono le cavie per tutto quello che poi venne attuato contro ebrei, zingari e omosessuali nell’universo concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, fino ad arrivare agli esperimenti di eugenetica del dottor Josef Mengele. Si calcola che siano stati più di 100mila i disabili sterminati.
Sì è vero, queste sono cose passate, che orrore, noi non siamo mica nazisti, vogliamo solo accompagnare i nostri cari verso la fine delle loro inenarrabili sofferenze!
L’eugenetica, però, non è nata in Germania, dicevano esattamente le stesse cose i luminari della prestigiosa Università di Princeton in America, ai primi del Novecento: “Noi vogliamo soltanto alleviare le sofferenze di esseri per cui la vita non è più vita!”.
È una deriva pericolosa. Stiamo attenti, la mia vita negli anni Trenta, in Germania e altrove, non era considerata degna di essere vissuta.
Certo, anche Papa Wojtyla si era opposto all’accanimento terapeutico. C’è una grande differenza tra rifiuto delle cure e suicidio assistito, ma il diavolo è nei dettagli.
Michele Pacciano
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