La Caritas è la Chiesa dei deboli e dei bisognosi
Si è svolto nei giorni scorsi presso il Canalé Village, Castellaneta Marina (Taranto), il XXXIX Convegno nazionale delle Caritas diocesane al quale hanno partecipato oltre 500 tra direttori e operatori avente come titolo “Per uno sviluppo umano integrale”. In apertura ha dato il proprio benvenuto il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente nazionale della Caritas Italiana: “Proprio da qui vogliamo ridirci che la Chiesa è carità, e vogliamo dirci che, se mettiamo di più in ascolto dello spirito, ci renderemo conto che la convivialità delle differenze, cara al nostro amato don Tonino, è consegnata a ciascuno di noi perché si realizzi. Vogliamo essere Chiesa esperta di umano. Non solo servizi, abbiamo da ricevere e da dare. Il nostro compito è di scandalizzare attraverso la profezia”.
Noi lo abbiamo incontrato ed abbiamo fatto una gradevole chiacchierata a proposito del Convegno e dei problemi quotidiani che dobbiamo affrontare.
Eminenza cosa viene fuori dal Convegno di Castellaneta. Qual è lo stato di salute delle Caritas?
“Lo stato di salute sembra buono. Ma mi permetto di sottolineare che la Caritas non è un’associazione. La Caritas è la Chiesa che si rivolge verso coloro che sono poveri, nel bisogno. Allora è una Chiesa che s’interroga che tenta di dare delle risposte. Noi abbiamo come simbolo il Samaritano e quindi è la Chiesa che vuole aiutare chi è in difficoltà. Questo convegno è il XXXIX ed è strettamente collegato ai precedenti. Abbiamo voluto fare un collegamento con la nuova Congregazione, per essere in sintonia con quello che Papa Francesco desidera e che è stato sempre il distintivo del nostro agire. Non si tratta soltanto di dar da mangiare o da vestire, si tratta di “rivestire” di dignità quell’uomo che nella sua dignità è offeso”.
La Caritas Italiana è impegnata in prima linea nell’aiuto ai migranti. È possibile contrastare la tratta di esseri umani?
“È una domanda difficile. In realtà bisognerebbe risalire al problema nelle loro terre d’origine. Se lì si creano soluzioni e condizioni diverse molta meno gente verrebbe da queste parti. È chiaro che l’impegno dovrebbe essere da parte di chi governa e di chi compie azioni di volontariato che si deve impegnare a fare in modo di creare le condizioni tali nei Paesi d’origine, perché la gente non vada via di là. Questo credo sia il primo atteggiamento da assumere. Quando arrivano qui bisogna mettersi accanto a loro ed aiutarli”.
La globalizzazione ha portato a nuove forme di povertà quali la disoccupazione crescente, i padri separati o chi è in uno stato di prima indigenza.
È possibile intervenire per evitare la guerra tra poveri che queste situazioni sviluppano?
“I poveri ci sono e c’è chi purtroppo vuole che esistano. Qui si tratta di fare una politica sociale diversa, attenta alle necessità delle famiglie, dei singoli. Purtroppo però ci troviamo in un tempo dove scricchiola tutto. Allora è facile gridare “dai all’untore” a chi viene da lontano. Una politica di accoglienza, di stabilità dovrebbe permettere agli uni e agli altri di poter vivere dignitosamente”.
Il rapporto tra la Chiesa e il Governo può incidere positivamente per il bene collettivo?
“Incide così come ha sempre fatto. Non solo proponendo o chiedendo che qualcosa cambi, ma sbracciandosi e mettendosi accanto ai poveri, tentando di fare qualcosa in più”.
Come mai si è scelta Castellaneta per questo convegno?
“Perché abbiamo deciso di girare sul territorio da Nord a Sud. Al Sud abbiamo scelto la Puglia in particolare, per i problemi che conosciamo. E quindi diventa un gesto di solidarietà e di attenzione. È un abbraccio che vogliamo dare a questa terra e condividerne i problemi”.
Che cosa significa oggi essere e farsi Chiesa al Sud?
“Essere Chiesa in un territorio che può avere delle sue difficoltà, per proclamare il Vangelo per aiutare gli uomini ad avere speranza e dare il necessario per poter vivere e sopravvivere. La nostra preoccupazione è dare senso a chi ha perso senso, dare fiducia a chi l’ha persa, perché è ancora possibile sperare. Noi ci crediamo, ci mettiamo accanto a te e vogliamo camminare con te. La Chiesa tenta di dare voce e speranza a chi non ce l’ha, in trasparenza e in semplicità”.
La logica del primo intervento, cioè in quale maniera si fa la vera accoglienza?
“Innanzitutto bisogna finire di pensare l’emigrazione come un’emergenza, perché dopo decenni credo che questo sia un errore. L’emergenza si accontenta di mettere delle toppe. È un fatto ormai strutturale, fa parte della vita nostra e di quella degli altri. Allora se è un fatto strutturale bisogna dare delle risposte definitive, attente che possano guardare anche al futuro. Mentre degli interventi fatti tanto per dare una mano e nulla più, non sono capaci di accompagnare l’altro lungo la strada. Allora ci vuole una scelta politica coraggiosa che deve essere la nostra. Oggi lo Stato ha dato un segnale con quell’attenzione ai minori non accompagnati, ma che dev’essere anche di tutta l’Europa, che purtroppo è distratta, non è interessata a mettere l’uomo al centro e quindi continuano a fare politiche che fanno temere per il futuro. Le dico anche che la Diocesi di Manfredonia prenderà dal campo profughi della Giordania quattro famiglie con undici bambini, alcuni anche malati. Questo è un segnale molto bello, anche per questa terra di Puglia che nonostante le sue difficoltà e povertà è attenta ai bisogni di questi migranti. Un detto delle mie parti dice che chi ha fame crede all’affamato, questa è l’attenzione di questa gente del Sud verso altre povertà, perché la povertà poi si rassomiglia”.
Michele Pacciano
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