Ma esiste un populismo utile alla democrazia
Aldilà degli esiti – abbastanza scontati – del ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, le presidenziali francesi 2017 saranno ricordate, specialmente, per una parola: populismo. In altri termini, neutralizzare il populismo del Front National. Una sorta di mantra, ripetuto ossessivamente da politici e mezzi di comunicazione, perlopiù in modo improprio, cui viene associata l’idea di un pericolo per la tenuta della democrazia.
Ma cosa sia, precisamente, il populismo è tutt’altro che chiaro. Sappiamo che, storicamente, esso si colloca nella Russia zarista di fine ‘800 e lo si qualifica come quel movimento che cercava di ottenere il miglioramento delle classi più povere ed emarginate. Tuttavia, una volta che lo si astrae dal suo contesto originario, sono a dir poco sfuggenti gli elementi che lo costituiscono. A partire dalla sua definizione. È una ideologia, un sistema di pensiero, una visione del mondo? Oppure è soltanto uno stile, un modo di parlare “alla pancia della gente”, appunto lo stile populista?
Su ciò si interrogano da anni storici, filosofi, politologi, sociologi, senza peraltro arrivare a risultati condivisi. Probabilmente perché non esiste un’unica risposta. Potrebbe infatti trattarsi – come sostenuto da un autorevole studioso del tema (M. Tarchi, Italia populista, Il Mulino, 2015) – di una specifica “mentalità” compatibile con diversi contenuti ideologici e, di conseguenza, adattabile a forze politiche estremamente lontane tra loro, sia di destra come di sinistra (come pure a forze politiche non specificamente caratterizzate).
Questa adattabilità/versatilità starebbe alla base, appunto, dei numerosi fenomeni di populismo che sono dati rinvenire nella storia più o meno recente.
Seguendo questa impostazione, tra gli elementi indefettibili della mentalità populista, vi sarebbero: 1) una concezione di popolo come comunità omogenea dotata di qualità etiche. Una società civile fatta, soprattutto, di gente comune, di persone normali dotate di buonsenso e di etica del lavoro; 2) una rappresentazione della classe politica, al contrario, come incapace e, tendenzialmente, corrotta; 3) l’idea che il popolo sia l’unica fonte legittima del potere, che si esercita anche tramite strumenti di democrazia diretta (esempio il referendum), o comunque con vincoli stretti tra rappresentanti e rappresentati (come il mandato imperativo).
È di tutta evidenza che il populismo può presentare seri rischi quando tradisce la sua essenza, ovvero degenera in modelli di partecipazione plebiscitaria e, soprattutto, in forme politiche autoritarie, o addirittura totalitarie. Così come sarebbe una ipocrisia demonizzare la classe politica nella sua interezza come incapace e corrotta e contrapporre ad essa, idealizzandola, una società civile virtuosa ed eticamente irreprensibile. Vero è, infatti, che ogni società ha la classe politica che si merita.
Ciò detto, la vulgata che condanna senza appello il concetto di populismo è in sé a dir poco contraddittoria.
Dove sarebbe il pericolo per la democrazia?
Appellarsi al popolo, coinvolgerlo, renderlo protagonista – e non più solo spettatore passivo – nella gestione delle decisioni fondamentali che riguardano la res publica, si chiama, guarda caso, democrazia.
Dare priorità agli interessi del popolo, dare voce ai suoi bisogni (e alle sue speranze) anziché a quelli di una ristretta élite di privilegiati si chiama, guarda caso, ancora democrazia.
Del resto cospicue aperture al “populismo” possono essere rintracciate proprio negli stessi enunciati costituzionali di ordinamenti democratici. Emblematico l’art. 1 della Costituzione italiana ai sensi del quale “La sovranità appartiene al popolo”: un popolo come principio, origine, asse fondante di tutta l’architettura costituzionale.
In questa rinnovata esigenza di centralità del popolo vi sono, dunque, elementi positivi: un popolo che vuole esserci, contare, decidere. Il che non è affatto in contrasto con i principi classici della democrazia rappresentativa, su cui si fondano tutte le società complesse.
Non facciamo, dunque, l’errore di stigmatizzare, come sovente accade in alcuni chic ambienti intellettuali, l’idea di un popolo che vuole fare sentire la propria voce. Sotto questo profilo il populismo può giocare un ruolo molto importante, di democratizzazione del sistema. Che si può concretizzare, appunto, in una maggiore partecipazione alle decisioni politiche fondamentali e in forme più stringenti di rappresentanza politica.
Esigenza oltremodo sentita, soprattutto dopo che per anni abbiamo assistito, nel nostro Paese, ad un processo di totale distacco dei partiti rispetto alla società, ad un loro appiattimento sulla gestione del potere, alla perdita di ogni riferimento di idealità e valori. Una pericolosa autoreferenza del ceto politico che è stata speculare al declino della partecipazione civile. Una estraneità di intere parti della società dalla vita delle istituzioni, come dimostrano i dati consolidati, e a dir poco allarmanti, dell’astensionismo in Italia.
Per questi motivi il populismo potrebbe servire anche per invertire la rotta.
E sarebbe un errore di valutazione pensare che esso sia un fenomeno transitorio. Al contrario esso è dato in ascesa, sia a destra come a sinistra, un po’ ovunque. Non c’è da stupirsi, né tantomeno da scandalizzarsi. I temi classici del populismo di oggi, ovvero l’antieuropeismo e l’immigrazione, sono infatti temi molto seri e devono essere affrontati con massimo senso di responsabilità. Perché – come è stato correttamente rilevato (v. C. De Fiores, L’Europa al bivio, Ediesse, 2012) – per la prima volta dalla sua fondazione, il fallimento dell’Unione Europea non è più soltanto un’ipotesi immaginaria. Nell’arco di poco tempo, tutte le ambiguità e tutte le contraddizioni del processo di integrazione sono venute allo scoperto: un’unione politica senza politica, una moneta senza Stato, una democrazia senza demos. L’Europa si trova di fronte a un bivio: continuare a essere un luogo opaco di intese tecnico-normative (fra élites, giudici, poteri economici, lobbies finanziarie, governi), oppure voltare pagina, provando a rifondare, ma davvero ex novo, e finalmente su basi democratiche, il processo di integrazione.
I segnali politici e sociali che arrivano da tutta Europa sono inequivocabili: è finito il tempo delle retoriche europeiste di maniera. La politica europea sull’immigrazione ne è una delle pagine più evidenti. E forse anche una delle più brutte. Non resterà che vedere come il probabile, nuovo, inquilino dell’Eliseo, passerà dagli slogan europeisti della sua campagna elettorale alle azioni concrete di riforma di cui l’Europa ha un maledetto bisogno per la sua stessa sopravvivenza.
Ginevra Cerrina Feroni
(Ordinario di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato, Università di Firenze)
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