All’Ilva di Taranto la nuova cordata italoindiana
Il vecchio elefante d’acciaio va lentamente a morire. Lunedì sarà il giorno decisivo per lo stabilimento Ilva di Taranto. Dopo lotte intestine, duelli di carte bollate e sfide tra ambientalisti e fautori della libera impresa, la più grande acciaieria d’Europa, gettandosi alle spalle il periodo buio e controverso dei Riva e il processo Ambiente svenduto, passerà definitivamente di mano.
Se lo aggiudicherà per decreto governativo la cordata multinazionale formata da ArcelorMittal che fa capo all’industriale indiano Mittal e che vede come partner di riferimento, il gruppo Marcegaglia e la Banca Intesa.
Le ferite bruciano ancora ed è difficile trovare una linea mediana tra diritto al lavoro e diritto alla salute. I bambini del quartiere Tamburi continuano a morire per mesotelioma. All’entrata di Taranto l’aria è ancora irrespirabile, ma le vecchie tute blu non hanno dubbi: l’acciaieria durerà al massimo altri 10 anni e poi gli impianti verranno dismessi. Gli operai non si fanno illusioni sui lavori di bonifica e chi invoca, addirittura, la chiusura completa degli impianti e il totale reimpiego della forza lavoro nelle operazioni di disinquinamento. Ma questa appare l’ultima chimera di pochi disperati. Le parti sociali appaiono più realiste e tendono a tutelare i livelli occupazionali. La rabbia monta nelle notti di Taranto.
Durante gli scioperi nei giorni scorsi ci sono stati tafferugli e dure prese di posizione. C’era chi voleva occupare la statale Appia che attraversa mollemente quello che rimane degli stabilimenti siderurgici, ma poi ha prevalso una linea più attendista di cui si è fatto portavoce il segretario generale della Fiom Cgil Maurizio Landini, che pur giudicando negativamente l’accordo di vendita, ha rivendicato la necessità di salvaguardare quelle 25.000 famiglie che gravitano attorno all’indotto dell’acciaio e non solo.
C’è stato un momento in cui Taranto poteva sembrare l’avamposto di una nuova riscossa.
Sulle posizioni del movimento ambientalista era da sempre schierato il leader di PeaceLink Alessandro Marescotti che è stato la vera anima dell’inchiesta ambiente svenduto che ha portato alla sbarra tutta la dirigenza e la famiglia di Emilio e Fabio Riva, accusati a più riprese di disastro ambientale e bancarotta fraudolenta. Ma, comunque la si pensi, lo stabilimento Ilva di Taranto appare la nemesi di uno sviluppo mancato. Sono lontani i tempi in cui Paolo VI, nella notte di Natale del 1968, indossato l’elmetto esortava i lavoratori dell’Italsider a prendere in mano il loro futuro e a costruire nuovi quartieri.
Il futuro sembra essersi sgretolato a Taranto, con un ceto medio che non ritrova più se stesso ed è drammaticamente affacciato alle soglie di una povertà di ritorno. Il termine cattedrale nel deserto, fu coniato proprio per gli impianti di Taranto. Mai definizione si rivelò più profetica. I giovani se ne vanno all’estero e i vecchi non popolano più neanche le panchine di Piazza Castello.
Coloro i quali, da contadini si erano fatti operai ora non hanno nessun sogno da regalare ai loro figli e nipoti. A Taranto quest’anno non si è neanche celebrato il concerto del primo Maggio alternativo, che nelle primavere scorse, animato dal comitato dei lavoratori liberi e pensanti e dall’attore Michele Riondino, che ci aveva entusiasmato nei panni del giovane Montalbano, aveva alimentato flebili speranze di un domani migliore. In questo clima di incertezza, l’11 giugno Taranto vota anche per un futuro scomodo, laddove la politica sembra dichiarare la propria resa di fronte ad un futuro scomodo.
Non vale invocare i fasti dell’antica Grecia, quando Plauto Terenzio cantava la molle Tarentum. Chiunque governerà nei prossimi anni dovrà fare i conti con un sogno abortito.
Michele Pacciano
Commenti
All’Ilva di Taranto la nuova cordata italoindiana — Nessun commento
HTML tags allowed in your comment: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>