Il prete che dava le parole agli ultimi
A San Donato di Calenzano, l’occhio attento di don Milani rilevò subito due problemi. Il primo era che la gente continuava a scemare in chiesa. E il secondo che la religiosità popolare somigliava ai candelabri della Pieve: “dorati solo nella facciata che guarda il popolo e imbiancati da quella che guarda il Sacramento perché tanto di dietro nessuno li vede fuorché il sagrestano e Dio”.
Eppure un quinto dell’istruzione impartita a ogni ragazzo era “direttamente religiosa e quattro quinti non direttamente religiosi, ma però tutt’altro che irreligiosi”, Questo avrebbe dovuto assicurare una solida cultura religiosa. Al contrario, gli adulti versavano nell’ignoranza religiosa più abissale. La causa? Mancavano del minimo di conoscenze, di parole e dialettica. Un muro impenetrabile di ignoranza civile separava i poveri dalla predicazione del prete.
E don Milani si mise a far scuola per dare agli ultimi la luce della parola. “Con la scuola non li potrò far cristiani, ma li potrò far uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 100, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati del mio popolo ma del numero degli evangelizzati […] Quando saranno miei fratelli, non per un retorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò solo Dottrina e Sacramenti”.
Alla sua scuola serale affluivano contadini in prevalenza, e operai. C’era il corso A per gli analfabeti totali, il corso B per chi aveva soltanto la terza e voleva la licenza di quinta, il corso C per chi voleva progredire.
La chiave che apre ogni porta
Don Lorenzo cominciò a intestardirsi che ai poveri mancava soltanto l’italiano. Passava ore a spiegare una parola sola: l’origine, gli usi, i significati, le parentele italiane e straniere. Saltabeccava di palo in frasca, o, più esattamente, di vocabolo in vocabolo, lasciando l’impressione di non concludere nulla.
I primi tempi qualcuno bofonchiava. E lui, senza complimenti: “Chi non si fida di me si levi dai piedi. Io so che vi occorre solo la lingua e la lingua è fatta delle parole di tutte le materie diverse messe insieme. Se ti insegnassi solo a disegnare saresti una bestia e non serviresti né a te né a nessuno. Te invece devi diventare un Uomo che disegna”.
Poi pian piano, i ragazzi capirono dove andava a parare quel metodo. Quando venne a parlar loro un pittore e gli uscì detto “sinfonia dei colori” s’illuminarono di soddisfazione, perché sinfonia era parola di casa. Lo stesso accadde quando uno storico, spiegando la Rivoluzione Francese, disse “prospettiva storica”: poche sere prima don Milani li aveva costretti a disegnare in prospettiva.
Che s’inoltrassero senza timori reverenziali nella prima pagina del giornale, quella che per l’addietro saltavano sempre per lo sport, o si buttassero a leggere i romanzieri russi, o affrontassero il libro per la patente, o, infine, provassero a metter bocca nelle discussioni pubbliche di chi aveva studiato, una verità ne usciva puntualmente riconfermata: “la parola è la chiave fatata che apre ogni porta”.
Per un paio d’anni, comunque, don Lorenzo alla ricerca di un modo di far l’apostolato, puntò anche sulla carta dei giochi. Poi maturò la grande polemica contro i ricreatori parrocchiali e le Case del Popolo, che corteggiavano i giovani con lo strumentario alienante degli svaghi, e nella canonica di San Donato si fece sempre più scuola e sempre meno ricreazione.
Crebbe la sua statura di prete-maestro. L’attenzione dei ragazzi era sempre tenuta all’erta. Piacevano la sua ironia appuntita, il linguaggio schietto. Non lesinava, all’occorrenza, lavate di capo e scappellotti. Il venerdì era di turno uno specialista. Dopo che l’oratore aveva parlato, i ragazzi, bucando l’antica timidezza, intervenivano nel dibattito. Era un’occasione per conquistare sicurezza e disinvoltura.
Tra i paria del Mugello
Nel piccolo mondo di Calenzano, tra il 1948 e 1953, don Milani raggiunse quella maturità sociale e politica che lo portò a scontrarsi con la Democrazia Cristiana e la Curia. Nel 1954 venne trasferito a Barbiana. Minuscola, un centinaio di abitanti, seminata sul fianco nord del monte Giovi, in mezzo a boschi di castagni e quercioli, senz’acqua né luce, la pieve di Sant’Andrea a Barbiana accolse il nuovo priore il 6 dicembre. Pioveva, tirava vento, faceva un freddo cane. Don Lorenzo pregò nella chiesina, e pianse. Da quella montagna desolata il suo messaggio pastorale e pedagogico si allungherà dovunque.
Avviò subito una scuola serale divisa in due classi. I ragazzi familiarizzavano con i moduli di conto corrente, i vaglia, i telegrammi, i moduli del Comune. Un’altra volta tracciavano la pianta della scuola. O imparavano da che madre discendesse un giornale che si spacciava per orfano. Era una scuola viva, appassionante, se non si toccava il tasto della grammatica, così basilare per il priore.
La scuola serale finì presto, perché molte famiglie con i figli in età da lavoro migrarono verso i poderi del piano. Rimasero una decina di famiglie con i figli piccoli. Erano bambini iniziati ai segreti del bosco, per il resto fuori dal mondo, oberati da mille, umili e, nel contempo, importanti incombenze, destinati a uscire dalla pluriclasse di montagna semianalfabeti, prigionieri del dialetto, senza avvenire. Don Milani fece loro un doposcuola. Le famiglie rinunziarono, in parte, alle prestazioni garzonesche dei figli, perché in casa del priore potessero imparare a leggere e a scrivere.
Nel 1957 decise di impiantare una scuola secondaria di avviamento professionale, privata e gratuita per i ragazzi che avevano finito la quinta. Non c’era ancora la legge dell’ unica media. L’ iniziativa ritardò l’abbandono di Barbiana da parte di alcune famiglie. Anno per anno, i ragazzi sostenevano gli esami come privatisti nelle scuole di Stato. La scolaresca era divisa in due gruppi. Del primo si occupava don Lorenzo, del secondo, per forza di cose, i grandicelli erano i maestri dei più piccoli. Prestavano la loro collaborazione i professori Ammannati e Corradi.
Un maestro austero
Era una scuola dura. Attaccava alle otto. A mezzogiorno e mezzo si andava a desinare. Dopo mangiato, fino alle tre, lavoro manuale: spaccare legna per l’inverno, accomodare la strada, servizi vari … Poi, s’ imparava l’italiano, leggendo insieme il giornale. Chi non capiva un vocabolo, doveva interrompere. “Ogni parola che non conosci è una fregatura in più, è una pedata in più che avrai nella vita”, gridava don Milani. La domenica mattina era dedicata al Vangelo, nel pomeriggio lettura.
Don Milani conduceva avanti la scuola con un piglio autoritario, proporzionato al traguardo da raggiungere: tirar fuori per sempre quei figlioli dal fango del sottosviluppo. Ma rimaneva un padre impagabile. Arrivavano, e lui sulla porta ad aspettarli. La sera, tornavano ai loro casolari, e lui: “Ce l’hai la pila?”; “Hai le scarpe bucate? Aspetta che ti do io un paio di stivali”. Non tollerava i saccenti, era tutto comprensione per i timidi. Niente pallone, a Barbiana: sci d’inverno, nuoto d’estate, come materie di scuola. Le visite erano gradite se facevano comodo alla formazione dei ragazzi.
Dopo l’istituzione della media dell’obbligo, Barbiana divenne il “refugium peccatorum” delle medie mugellesi. La scolaresca si allargò e, insieme, si annacquò, e don Milani visse le ore più burrascose.
Nella scuola di Barbiana, l’apprendimento delle lingue straniere occupava un posto importante. Fin dal 1959, era iniziata la consuetudine di ospitare giovani stranieri, con i quali i ragazzi potevano esercitarsi nella conversazione in francese, inglese, e tedesco. C’erano anche dischi e nastri. Il viaggio all’estero, organizzato meticolosamente, consacrava la loro maturità linguistica e umana.
Era una scuola riconciliata con la politica, nel senso migliore, come la intendeva don Milani: “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Il motto americano I CARE che significa “m’importa, mi sta a cuore” non rimaneva soltanto appeso al muro, ma era stampigliato nel cervello di tutti. Veniva riscoperta, di conseguenza, l’importanza capitale dell’educazione civica e del suo vangelo: la Costituzione.
Lettera a una professoressa
La scuola di Barbiana rifiutava il libro di testo come una delle cinghie di trasmissione della cultura dominante. Il libro di storia, in particolare, veniva malmenato: “In genere non è storia. È un raccontino provinciale e interessato fatto dal vincitore al contadino. L’Italia centro del mondo. I vinti tutti cattivi. I vincitori tutti buoni. Si parla solo di re, di generali, di stupide guerre tra nazioni. Le sofferenze e le lotte dei lavoratori o ignorate o messe in un cantuccio […] Nel nostro libro c’era tutto fuorché la fame, i monopoli, i sistemi politici, il razzismo”.
Al libro di testo la scuola di don Milani contrappose l’analisi dei quotidiani, la critica filologica dei testi, l’uso pedagogico degli strumenti di comunicazione sociale, e quell’arte dello scrivere che produsse il capolavoro, quasi collettivo, della “Lettera a una professoressa”.
Il problema di partenza del libriccino, ormai celebre in tutto il mondo, è la bocciatura. Chi sono i respinti, i ripetenti? Non certo i figli della borghesia. Loro, anche se pigri e duri di cervice, hanno tutto il tempo e l’aiuto per proseguire gli studi. Sono i figli dei poveretti a rimanere impaniati nelle bocciature.
I loro circuiti mentali sono più lenti e sprovveduti, perché provengono da ambienti troppo distanti dalla cultura imposta dalla scuola dell’obbligo. Alla professoressa che al compito da quattro dichiara candidamente di dar quattro, don Milani fa osservare che “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali tra disuguali”, e incalza: “Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi …”
“Lettera a una professoressa” è stata una grossa pietra scagliata nelle piccionaia nella scuola di Stato. La sua lezione è tutt’altro che sepolta nell’oblio.
Oggi, al nome di don Milani s’intitolano scuole e circoli culturali. Il fenomeno presenta un’estensione e una celerità davvero singolari. Il prete-maestro di Barbiana è nel cuore delle masse perché ha saputo far vibrare la corda della fiducia nell’uomo, nelle sue possibilità di crescere e di aprirsi alla Parola di Dio.
Nel testamento ai suoi ragazzi ha lasciato scritto: “Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.
Basilio Gavazzeni
Scheda biografica
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 da una famiglia ricca di beni e di cultura. Non riceve nessuna educazione religiosa. Nel 1930 i Milani si trasferiscono a Milano. Lorenzo studia al Liceo Classico Berchet e all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 1943, a Firenze, incontra don Bensi: si converte al cristianesimo ed entra nel Seminario Maggiore di Cestello in Oltrarno. Nel 1947 è sacerdote. Viene inviato a San Donato di Calenzano, come cappellano dell’anziano proposto. Dopo il 1948, assume una posizione sempre più critica nei confronti della Democrazia Cristiana. Iniziano gli scontri con la Curia fiorentina. Nel 1954 viene trasferito a Barbiana, una parrocchia di 104 anime. Organizza la scuola popolare a tempo pieno per i ragazzi del luogo. Nel 1958 pubblica “Esperienze Pastorali”. Il libro viene presto ritirato dal commercio per decreto del Santo Uffizio. Nel 1964, con l’amico don Borghi, interviene nel “caso Bonanni”, esponendosi a una dura reazione da parte dell’ Arcivescovo di Firenze, Florit. Nel 1965 don Lorenzo risponde ai cappellani militari che hanno definito l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”, estranea al cristiano comandamento dell’amore. Denunciato, subisce un rinvio a giudizio, per istigazione a delinquere. Gravemente ammalato, non può recarsi di persona al Tribunale di Roma: invia una bellissima “Lettera ai giudici”. Il processo in prima istanza si conclude con l’assoluzione. Su ricorso del Pubblico Ministero, il 28 ottobre 1968, la Corte d’Appello, modificando la sentenza di primo grado condannerà lo scritto. Nel 1966 altro scontro con il Cardinal Florit. Nel maggio del 1967 esce la “Lettera a una professoressa”.
Un mese dopo, il 26 giugno, don Milani muore in casa della madre a Firenze, a soli 44 anni.
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