Le storielle che si raccontano a proposito di pensioni
In Italia si prosegue a parlare di pensioni, come se le pensioni fossero la cancrena dello Stato. E spesso lo si fa a partire da numeri sbagliati. Nessuna meraviglia se poi, quando dall’Europa devono indicarci strade per il risanamento, tutto sembra ruotare attorno alla previdenza.
La prova l’abbiamo vista nella «lettera» che la Commissione ha recentemente inviato al nostro Paese dove l’unica parola che emerge è «pensioni».
L’Italia ha già subito sulla propria pelle questa situazione quando, nel pieno della crisi del 2011, si arrivò al cambio di governo dopo l’attacco dei mercati, con una perdita di sovranità, e a una riforma previdenziale per molti versi esagerata e sbagliata.
Ma da dove arrivano i dati sulla previdenza? Sono forniti dall’Istat.
Ed è l’Istat che li fornisce a Eurostat e agli altri organismi internazionali (spero sia chiaro a tutti che né Eurostat né Ocse né Fmi hanno modelli econometrici sull’Italia e quindi si basano esclusivamente sulle cifre fornite dall’Istituto Nazionale di Statistica).
E da quelle cifre si evince che la spesa per le pensioni è pari al 18% circa del Pil, contro una media dei 27 Paesi inferiore al 15%, quindi cosa possono pensare i nostri partner europei di noi e che cosa possono chiederci? Logicamente, di tagliare le pensioni visto anche il nostro enorme debito pubblico.
Ma come stanno veramente le cose?
La spesa per le pensioni per il 2016, sulla rigorosa base dei bilanci Inps, è pari a circa 218 miliardi, mentre i contributi sono pari a 197 miliardi.
Già questo basterebbe per dire che il deficit non è di 87 miliardi, ma di 21.
Ma non è finita qui: se alle prestazioni togliamo le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali (l’ex milione al mese di Berlusconi), che pure l’Inps mette tra le spese assistenziali, e senza considerare la quota assistenziale per i dipendenti pubblici pari a 8,1 miliardi, la spesa si riduce a meno di 208 miliardi.
Poiché sulle pensioni, a differenza di altri Paesi Ue, gravano le imposte che per il 2016 sono state pari a quasi 50 miliardi, la spesa vera si riduce a poco più di 150 miliardi che, rapportata ai contributi pagati dalla produzione, evidenzia un saldo positivo di oltre 30 miliardi.
Ma chi le paga le imposte?
Su 16,1 milioni di pensionati oltre il 51% sono totalmente o parzialmente assistiti dalla fiscalità generale, cioè da tutti noi (almeno da quelli, abbastanza pochi, che le tasse le pagano per davvero e per intero); le dichiarazioni sui redditi Irpef 2015 presentate nel 2016, ci danno un dato sconcertante: poco più del 38% dei dichiaranti paga quasi il 90% di tutta l’Irpef e di questi l’11% ne paga quasi la metà.
Ma torniamo ai pensionati: il dato è da Paese in via di sviluppo, infatti ben 8,2 milioni sono assistiti totalmente (oltre 4 milioni) o parzialmente (altri 4) dallo Stato tramite pensioni sociali, assegni sociali, invalidità, accompagnamento, pensioni di guerra (ci costano ancora 1,5 miliardi dopo oltre 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale ma nessun politico ha voglia di affrontare l’argomento per non correre il rischio di impopolarità), maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, 14esima mensilità, social card e dal prossimo anno anche con il reddito di inserimento (Rei) che costerà altri 4 miliardi.
Occorre considerare che per avere una pensione minima basterebbero meno di 15 anni di contributi che il 51% dei nostri pensionati assistiti in 66 anni di vita non ha pagato (e quindi non ha versato neppure le imposte).
I poveretti che pagano i 50 miliardi di tasse sulle pensioni sono quelli che, da attivi, hanno mantenuto questo Stato.
Quella che sta esplodendo è la spesa assistenziale a carico della fiscalità generale che, nel 2016, ha toccato quota 107 miliardi ed è una spesa netta perché, a differenza di quella per le pensioni, su queste prestazioni non ci sono imposte.
L’Istat e l’Inps dovrebbero quindi riflettere con maggiore attenzione sulla congruità delle cifre che diffondono altrimenti vanno ad alimentare campagne politiche e cattiva informazione. A meno che non le si vogliano deliberatamente pubblicare ben intuendo le reazioni che potrebbero scatenare.
la Redazione
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