Con l’arrivo dell’euro la crescita Pil Italia è quasi zero
Il 1° gennaio 1999 nasce l’euro virtuale. Le banche, le istituzioni europee, le amministrazioni degli Stati europei operano in euro. Tutti i cambi tra le monete e gli scambi in borsa sono effettuati in euro.
Per cambiare le lire in marchi tedeschi è necessario convertire le lire in euro e poi gli euro in marchi. Per le aziende è cominciato un periodo transitorio nel quale non ci sono imposizioni né regole.
Tuttavia, proprio per una maggiore competitività sul mercato europeo, molte di loro hanno cominciato da subito a redigere i propri listini in euro. Anche i bilanci aziendali possono essere redatti in euro.
Buste paga, bollette telefoniche, estratti conto bancari, e prezzi nei negozi vengono riportati nelle due valute. L’euro come moneta non esiste ancora, escludendo qualche esperimento locale, il vero euro entrerà in circolazione il 1° gennaio 2002.
Secondo una ricostruzione statistica realizzata dall’Ufficio studi della CGIA di Mestre, dall’inizio del 2000 fino al 2017 la ricchezza nel nostro Paese (Pil) è cresciuta mediamente di appena lo 0,15 per cento ogni anno.
Come sostengono molti esperti, siamo in una fase di stagnazione secolare e sebbene la ripresa si stia consolidando in tutta Europa, anche a seguito di una congiuntura internazionale favorevole, gli effetti positivi non stanno interessando tutte le aree territoriali e le classi sociali dell’Italia.
Il popolo delle partite Iva, ad esempio, continua ad arrancare; schiacciato come è da un carico fiscale eccessivo, da una burocrazia oppressiva e da una domanda interna che procede a rilento.
Rispetto al 2007, anno antecedente la grande crisi che colpì gli Stati Uniti con la mastodontica bolla immobiliare, dobbiamo ancora recuperare 5,4 punti percentuali di Pil.
Tra le componenti che costituiscono quest’ultimo indicatore economico, nel 2017 la spesa della Pubblica amministrazione presenta una dimensione inferiore a quella di 10 anni fa di 1,7 punti percentuali, la spesa delle famiglie di 2,8 punti e gli investimenti addirittura di 24,3 punti percentuali in meno.
La crescita registrata dai nostri principali partner economici dell’area dell’euro è stata molto superiore alla nostra. Se in Italia negli ultimi 17 anni il Pil è aumentato di soli 2,6 punti percentuali (variazione calcolata su valori reali), in Francia l’incremento è stato del 21,7 per cento, in Germania del 23,7 per cento e in Spagna addirittura del 31,3 per cento.
L’Area dell’euro (senza Italia), invece, ha riportato una variazione positiva del 25,9 per cento. Tra i 19 paesi che hanno adottato la moneta unica solo il Portogallo (-1,2 punti percentuali), l’Italia (-5,4) e la Grecia (-25,2) devono ancora recuperare, in termini di Pil, la situazione ante crisi.
Se, però, sempre in questo arco temporale analizziamo l’andamento dei nostri conti pubblici, il rigore non è mai venuto meno.
Negli ultimi 17 anni, sostengono i responsabili della CGIA, solo in un anno, il 2009, il saldo primario, dato dalla differenza tra le entrate totali e la spesa pubblica totale al netto degli interessi sul debito pubblico, è stato negativo.
In tutti gli altri anni, invece, è stato di segno positivo e, pertanto, la spesa primaria è stata inferiore alle entrate. A ulteriore dimostrazione che in questi ultimi decenni l’Italia ha mantenuto l’impegno di risanare i propri conti pubblici, nonostante gli effetti della crisi economica siano stati più pesanti qui da noi che altrove.
Anche sul fronte della produzione industriale, lo score dell’Italia registrato in questi ultimi 17 anni è stato parecchio deludente.
Rispetto al 2000, oggi scontiamo un differenziale negativo di 19,1 punti percentuali, con punte del -35,3 per cento nel tessile/abbigliamento e calzature, del -39,8 per cento nel settore dell’informatica e del -53,5 per cento nelle apparecchiature elettriche.
Di segno opposto, invece, solo gli alimentari e le bevande (+11,2 per cento) e la farmaceutica (+28,3 per cento).
Se, come sostenevamo sopra, negli ultimi 17 anni la produzione manifatturiera in Italia è diminuita di 19,1 punti percentuali, nessun altro tra i principali paesi avanzati dell’Ue ha fatto peggio.
Sebbene Spagna e Francia abbiano ottenuto dei risultati con scostamenti non molto diversi dal nostro, è invece significativa la performance registrata dal settore industriale tedesco.
Tra il 2000 e il 2017 la produzione manifatturiera in Germania è aumentata di quasi 30 punti percentuali.
Secondo la CGIA, comunque, il tema degli investimenti rimane centrale per delineare qualsiasi politica di sviluppo economico.
Gli investimenti pubblici, concludono i vertici della CGIA, sono una componente del Pil meno rilevante in termini assoluti, ma fondamentale per la creazione di ricchezza.
Se non si migliorano la qualità e la quantità delle nostre infrastrutture materiali, immateriali e dei servizi pubblici, questo Paese è destinato al declino.
Senza investimenti non si creano posti di lavoro stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello delle retribuzioni medie.
È utile ricordare che il crollo avvenuto in questi ultimi anni è stato dovuto alla crisi, ma anche ai vincoli sull’indebitamento netto che ci sono stati imposti da Bruxelles che, comunque, si possono superare, se, come prevede il Fiscal Compact, vengono introdotti degli aggiustamenti come, ad esempio, la golden rule.
Ovvero, alla possibilità che gli investimenti pubblici in conto capitale siano scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri.
Raimondo Adimaro
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