Banche e grandi imprese sempre a braccetto
Tra le banche scomparse negli ultimi anni due in particolare hanno tenuto vivo il dibattito ed occupato ampi spazi in tv e sulla carta stampata: Monte dei Paschi di Siena e Banca Etruria.
La prima per decenni è stata la cassa continua del Partito Comunista, poi Pds, poi ancora Ds e infine Pd. Essiccato il Monte si sono rivolti a Banca Etruria, costituita nel 1882 per desiderio della massoneria, l’istituto aretino è stato sino al suo dissesto un covo finanziario di massoni.
Notizie dettagliate sono riportate da Ferruccio De Bortoli, già direttore del Corriere della Sera, nel suo prezioso volume Poteri forti (o quasi). Un intreccio di oscure vicende nelle quali è coinvolto Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena politicamente legatissima a Matteo Renzi la quale è alla ricerca di un seggio supersicuro e super blindato per poter tornare a Roma come parlamentare e non come semplice curiosa e turista.
Nei mesi scorsi è stato pubblicato un rapporto da Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief, Comitato di Oxford per un sostegno alle famiglie) con la collaborazione di Fair Finance Guide Intarnational dal quale si è scoperto che le maggiori 20 banche europee hanno fatto registrare nei paradisi fiscali, che gli intenditori chiamano tax haven, 25 miliardi di euro di utili netti. Lo studio è stato ultimato non perché i banchieri di loro spontanea volontà hanno pubblicato i dati ma poiché sono stati costretti dalle nuove regole europee sulla trasparenza entrate in vigore nel 2015 per via della crisi finanziaria che stava travolgendo il vecchio continente.
Nel rapporto risultano tra le altre la BNP Paribas, la Deutsche Bank, la Barclays, la RBS, il Crédit Agricole, l’ING, il Santander, e altre ancora. A tenere compagnia ed allegro il gruppo di banchieri anche due italiane: Intesa Sanpaolo ed Unicredit.
Nelle ultime ore è stato pubblicato un rapporto dettagliato da parte della Cgia di Mestre dal quale si deduce che nulla è stato cambiato e nulla si intende cambiare.
Nonostante il fallimento di una decina di istituti di credito abbia originato un costo di oltre 60 miliardi di euro a carico dei risparmiatori, delle banche concorrenti e del bilancio pubblico, da Mestre denunciano che il nostro sistema creditizio continua a premiare chi, in buona parte, ha causato questo dissesto: ovvero le grandi famiglie industriali, i gruppi societari e le grandi aziende.
Ossia lobby e logge.
Gli ultimi dati disponibili della Banca d’Italia (riferiti al 30 settembre 2017) dicono che la quota di prestiti ottenuta dal primo 10 per cento degli affidati (vale a dire la migliore clientela che certamente non è costituita da artigiani, piccoli negozianti, partite Iva o piccoli imprenditori) è pari al 79,8 per cento del totale. Per contro, il restante 90 per cento dei clienti ottiene poco più del 20 per cento degli impieghi.
In buona sostanza dei 1.500 miliardi che alla fine dello scorso mese di settembre gli istituti credito italiani avevano erogato a famiglie, imprese e società non finanziarie, 1.200 sono stati prestati a un ristretto numero di soggetti che, è proprio il caso di dire, presenta un elevatissimo potere negoziale.
Non ci sarebbe nulla di anomalo e di discutibile se questo primo 10 per cento di affidati fosse solvibile ed affidabile. Compito della banca, infatti, è di sostenere chi ha bisogno di risorse finanziarie ma, allo stesso tempo, è anche nelle condizioni finanziarie di restituire nei tempi concordati quanto ottenuto.
In Italia, purtroppo, le cose continuano ad andare diversamente. Se, infatti, si analizza l’incidenza percentuale sul totale delle sofferenze bancarie ascrivibile a questo ristrettissimo club di affidati e imparentati, la quota ammonta all’81 per cento del totale. Ovvero, le grandi imprese continuano a ricevere la quasi totalità dei prestiti bancari, sebbene presentino livelli di insolvenza allarmanti.
Sebbene in calo, al 30 settembre dello scorso anno le sofferenze bancarie lorde presenti in Italia ammontavano a 170,2 miliardi: 16,5 miliardi in meno rispetto allo stesso periodo del 2016.
Naturalmente l’elevato numero di crediti deteriorati provoca una forte contrazione dei prestiti all’economia reale, di quanti ne hanno bisogno. Non essendo in grado di recuperare una buona parte dei finanziamenti erogati, le banche hanno deciso di non rischiare più e hanno progressivamente chiuso i rubinetti del credito.
Solo nell’ultimo anno c’è stata una leggera inversione di tendenza. Tra novembre 2017 e lo stesso mese del 2016, la quantità di finanziamenti alle imprese è aumentata mediamente dello 0,3 per cento. Nelle medio-grandi la crescita è stata dello 0,6 per cento, nelle piccole e micro la contrazione è stata dell’1 per cento, seppure la domanda generale di credito registrata in questi ultimi mesi sia tendenzialmente in crescita.
A livello regionale è interessante notare che al Sud il primo 10 per cento degli affidati ottiene meno credito delle rispettive fasce presenti nel resto d’Italia, ma genera una quota di sofferenze quasi in linea con il dato medio nazionale.
Al Nord, invece, le grandi imprese ottengono percentuali di credito molto alte, con livelli di affidabilità che, comunque,si allineano attorno al dato medio nazionale. In altre parole possiamo dire che i grandi gruppi del Nord sono più “virtuosi” di quelli presenti nel Mezzogiorno.
I dati a livello provinciale, infine, evidenziano che il primo 10 per cento degli affidati ha in capo l’87,8 per cento delle sofferenze a La Spezia: record nazionale rispetto a una media Italia pari all’81 per cento.
Scorrendo la graduatoria troviamo al secondo posto con l’86,4 per cento Verbania-Cusio-Ossola, al terzo con l’86,2 per cento Bolzano, al quarto con l’85,9 per cento Roma e al quinto con l’85,8 per cento Parma. In coda alla classifica nazionale si trovano con il 69,9 per cento Sondrio, con il 69,7 per cento Agrigento e con il 68,7 per cento Lodi.
Niccolò Rejetti