Cresce il numero dei nuovi poveri in giacca e cravatta
Il malessere diffuso in tutto il Paese riceve un’ulteriore conferma dalla Terza Edizione del “Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia” realizzato dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio (Peppino Di Vittorio è stato uno dei massimi esponenti del sindacalismo italiano e della Cgil in particolare) e da Tecnè, un istituto di ricerca e di elaborazione dati.
Il quadro generale non emette segnali di miglioramento soprattutto se si osserva ciò che accade tra le classi meno abbienti. L’Istat certifica che in Italia 4.700.000 cittadini vivono nell’inferno dell’estrema povertà.
Dagli ultimi rapporti di Save the Children e dell’Unicef viene fuori che tra gli Stati dell’Ocse la Penisola “è tra i Paesi con tasso di povertà infantile più elevato, il 17% della popolazione minorile, pari a 1.750.000 minori, vive sotto la soglia di povertà”.
Abbiamo, nel concreto, centinaia di migliaia di poveri e non siamo in grado di farli vivere in maniera dignitosa.
E allora per far arricchire poche cooperative bianche e rosse consentiamo l’attracco a gommoni carichi di giovanotti palestrati e con doppio cellulare, di venire a vagabondare e delinquere nel nostro Paese.
In compenso i politici nazionali e regionali intascano stipendi che non scendono mai sotto la soglia di 15.000 euro mensili oltre ad una serie infinita di privilegi, benefit ed oltraggiose agevolazioni che offendono milioni di cittadini. Però continuano a dichiarare che il problema nazionale da risolvere sono questi giovanotti desiderosi di attraccare sulle nostre coste.
Il Rapporto pubblicato dalla Fondazione Di Vittorio e da Tecnè “ha l’obiettivo di misurare lo stato di salute del Paese con lo sguardo rivolto all’equità della crescita e alle diseguaglianze economiche, sociali e territoriali”. Si prefigge di evidenziare se lo sviluppo è unanime ed equamente diffuso e se genera un miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
Nel titoletto “Un Paese più forte economicamente ma dove crescono le diseguaglianze e cala la fiducia” si legge tra l’altro “Nonostante la crescita economica registrata dal Pil ed il miglioramento dei livelli occupazionali (in larga prevalenza, però, generati da contratti a tempo determinato) la qualità dello sviluppo del Pese non cresce, fermandosi agli stessi livelli dello scorso anno. Ciò è determinato dalla permanenza di una grande area di povertà e da un’ancora più grande area di vulnerabilità economica e sociale. Nel complesso la forbice sociale si allarga, con la ricchezza che tende a concentrarsi nella popolazione ad alto reddito e aumentano le distanze territoriali tra nord (in particolare il nord-est) e il resto del Paese. Cala la fiducia economica e le attese per i successivi 12 mesi e peggiora l’indice che misura l’equità economica”.
Sembra un comunicato emesso da un partito dell’opposizione per gettare discredito sull’operato del governo e sui partiti che hanno amministrato. Nell’ultimo quinquennio si sono alternati alla guida del governo a Palazzo Chigi Mario Monti, dal 16.11.2011 al 28.4.2013, poi Enrico Letta, dal 28.4.2013 al 22.2.2014, quindi Matteo Renzi, dal 22.2.2014 al 12.12.2016, e infine Paolo Gentiloni, dal 12.12.2016 e tuttora in carica. Per trovare un governo di centrodestra occorre guardare parecchio indietro, Berlusconi ha governato dall’8 maggio 2008 al 16.11.2011, per cui è parecchio difficile scaricare le difficoltà della situazione odierna sulla classe politica del centrodestra del passato remoto.
Sottolinea ancora il Terzo Rapporto della Fondazione Di Vittorio:
“A fronte del 5% che ritiene migliorata la condizione economica della propria famiglia rispetto ad un anno fa, il 28% l’ha vista ulteriormente peggiorata. E quanto la forbice si stia allargando lo si rileva tra chi ha un reddito inferiore a 850 euro netti al mese, solo l’1% ha migliorato la propria condizione mentre il 49% l’ha peggiorata. Prende forma sempre più definita un sentimento di rassegnazione: il 75% pensa, infatti, che tra 12 mesi la propria situazione economica sarà uguale a quella di oggi, e il 16%, addirittura, un peggioramento”.
Un’analisi quasi spietata della situazione odierna, al di là dei discorsi trionfalistici di una parte della classe dirigente politica nazionale, il che vorrebbe significare l’abisso che divide i signori del potere dalla gente comune che ogni giorno timbra il cartellino.
Non meno allegro è il quadro del domani.
Ecco come prosegue il terzo Rapporto: “Per quanto riguarda le attese sull’andamento dell’occupazione nei prossimi mesi, il 44% del campione prevede che non crescerà e il 38% prevede una diminuzione. In sintesi: anche se l’Italia cresce rispetto agli anni precedenti (spinta anche dal contesto internazionale favorevole) e migliorano le dotazioni strutturali del Paese, aumentano le differenze tra chi è sul treno della ripresa e chi, invece, non vi è ancora salito, col risultato che nel complesso il ceto medio è più fragile, i poveri più poveri, il lavoro percepito più instabile e nel complesso è più difficile migliorare le proprie condizioni economiche, sociali e professionali”.
Di conseguenza si dilata il divario nord-sud. Diventa impietoso lo studio della Fondazione Di Vittorio e di Tecnè: “Nel mezzogiorno la qualità dei servizi socio-assistenziali registrano un ulteriore flessione rispetto ai livelli già bassi del 2016 e del 2015. Nel complesso sono circa 12 milioni gli italiani che non hanno soldi per curarsi, con un’incidenza più elevata proprio nel mezzogiorno e nell’area della vulnerabilità. Chi è povero in Italia ha probabilità maggiori di restarlo, contrariamente a ciò che accade in altri Paesi avanzati dove la povertà ha caratteristiche più transitorie. Nel complesso, la condizione di povertà riguarda circa il 10% dei lavoratori, colpendo anche fasce del ceto medio, come dirigenti e impiegati. I segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche ma in particolare nel mezzogiorno dove un lavoratore dipendente su quattro è povero o quasi povero. Ed ecco che, quindi, i working poors, definiti anche “poveri in giacca e cravatta”, rappresentano una delle più drammatiche conseguenze di questa fase economica. Una zona grigia di nuove povertà, forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una condizione che ha radici, non nella mancanza del lavoro, ma in un lavoro che diventa competizione di costo e non è più in grado di garantire un reddito sufficiente. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”. Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che ritiene di non poter puntare più verso l’alto della piramide sociale. Nel complesso la fotografia che emerge dal “Rapporto 2017 sulla qualità dello sviluppo in Italia” è di un Paese spaccato in due, con grandi e profonde differenze tra nord e mezzogiorno, con un centro-Italia che sembra non riuscire a tenere il passo delle aree più avanzate. Cala la fiducia su una prospettiva economica migliore per l’Italia e per la propria famiglia e soprattutto fra chi ha un reddito fino a 850 euro netti al mese la situazione, nonostante la ripresa, peggiore anche rispetto all’anno precedente”.
Con situazione critica, e per certi versi drammatica, italiana ma innanzitutto del meridione, i signori buonisti della politica con 15.000 euro e passa al mese elargiscono 35 euro e spiccioli al giorno, ovvero 1.100 euro al mese, ai giovanotti palestrati con doppio cellulare sbarcati per vagabondare e delinquere per la Penisola.
Bruno Galante
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