Ancora incerto il legame tra i tumori e i cellulari
Le radiazioni emesse da smartphone ed altri cellulari possono danneggiarci, anche in maniera seria, contribuendo allo sviluppo di tumori?
Questa è una domanda che la scienza si pone da tempo. E il dibattito si riapre, oggi, in occasione della pubblicazione di due nuovi rapporti promossi dal governo Usa, che hanno studiato, nei topi, l’effetto di un’esposizione assidua alle radiazioni dei cellulari per indagare il legame con lo sviluppo di tumori, soprattutto in alcuni distretti nel cervello, nel collo, nel polmone, nel sangue, nel fegato o nella pelle.
Mettendo insieme i risultati, tuttavia, l’esito dell’indagine è piuttosto incerto e di difficile interpretazione, tranne probabilmente nel caso specifico di un tumore raro, lo schwannoma maligno.
Così, non si è ancora arrivati ad una risoluzione chiara, mentre le evidenze scientifiche sul tema si stanno accumulando.
Ecco alcuni nuovi dati.
Le radiazioni a radiofrequenza sono onde elettromagnetiche con una frequenza compresa fra pochi kiloHertz e circa 300 GigaHertz, una finestra in cui sono incluse anche le onde tipiche delle trasmissioni radio, la televisione, i telefoni cellulari e il forno a microonde.
Si tratta dunque di radiazioni a cui siamo esposti quotidianamente, che non hanno nulla a che vedere con quelle ionizzanti e molto dannose, come ad esempio i raggi X.
Le linee guida attuali forniscono indicazioni rispetto agli effetti termici, per minimizzare il riscaldamento locale dei tessuti causato dall’uso dei telefoni, ma, si legge nei rapporti, non è ben chiaro se a lungo termine questo fenomeno possa essere collegato a un aumentato rischio di cancro.
Per approfondire la questione, gli autori statunitensi hanno utilizzato radiazioni a frequenza di 900 MegaHertz e di 1.900 MegaHertz, tipiche dei cellulari, con sistema Gsm, lo standard di seconda generazione della telefonia mobile, e con sistema Cdma, una tecnologia di terza generazione.
L’esposizione alle radiazioni è avvenuta durante un intervallo di nove ore al giorno per due anni di seguito, un tempo mediamente superiore a quello con cui si utilizza quotidianamente il cellulare.
Gli organi presi in considerazione sono vari e gli autori hanno studiato la tossicità genetica di queste radiazioni analizzando cellule cerebrali e cellule del sangue.
In base ai risultati, i ricercatori hanno rilevato un’incidenza dei tumori leggermente maggiore nel campione esposto alle radiazioni.
Ma si tratta di un aumento non rilevante rispetto ai dati storici di riferimento, con cui gli scienziati hanno confrontato le percentuali odierne, per poter indicare una correlazione fra cellulare e tumori.
Ad eccezione di un caso, in cui un legame potrebbe esserci: si tratta dello schwannoma maligno, un raro tipo di tumore, che ha colpito il 6% dei topolini di sesso maschile nei tessuti nervosi vicini al cuore.
Questo tumore di solito colpisce il nervo acustico, almeno nell’essere umano, mentre in questo caso ha colpito il cuore, ma bisogna tenere conto che gli animali sono stati sottoposti a radiazioni in tutto il corpo e non soltanto vicino alla testa. È un dato, si legge nelle conclusioni del rapporto, che indica una qualche evidenza dell’attività cancerogena, nel caso dello schwannoma maligno, legato all’uso del cellulare.
Insomma, i risultati lasciano dei dubbi, questo, come anche alcune evidenze precedenti, citate dagli autori dei report.
Ad esempio, lo studio Interphone del 2009 non aveva rilevato un’associazione significativa fra l’uso dei cellulari e alcuni tumori cerebrali, come il glioma e il meningioma, anche se nel caso del glioma era stato individuato un possibile aumento del rischio nel caso di un uso del cellulare superiore a mezz’ora negli ultimi 10 anni, cioè dal 1999 al 2009.
E l’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica le radiofrequenze emesse dai cellulari nella classe 2B, ovvero come possibili cancerogeni.
Il sospetto c’è, ma non nelle classi di maggior rischio, come quelle dei cancerogeni probabili o dei cancerogeni riconosciuti.
Ed è proprio questo sospetto, lo stesso messo in luce dai due rapporti di oggi, a mantenere acceso il dibattito scientifico su una questione complessa e sulla quale mancano ancora dati sufficientemente strutturati, forse anche perché l’uso assiduo di questi apparecchi è relativamente recente.
Piero Vernigo
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