Il ruolo dei media nei veri o presunti scandali alimentari
Per un ricercatore in ambito economico tra gli aspetti più interessante delle “fake news” vi è certamente l’impatto che possono avere sul mercato. È noto infatti che l’informazione, veicolata anche dalle notizie diffuse dai media, può cambiare le opinioni e preferenze delle persone, cambiandone dunque le scelte.
Da un punto di vista generale, non importa di quali scelte si parli. Le notizie possono cambiare i risultati elettorali, possono indurre le mamme a non far vaccinare i propri figli, oppure cambiare la composizione del paniere dei consumatori. In particolare, nella presente relazione, si parla di quest’ultimo caso, ovvero dell’effetto delle informazioni esterne sulle scelte alimentari degli italiani, con particolare riferimento alla carne bovina ed avicola.
Un altro aspetto interessante riguarda come le notizie possano cambiare le scelte. In questo senso, il ricercatore in economia deve ipotizzare se l’impatto sarà positivo o negativo sull’oggetto in analisi. Nel caso delle “fake news” il discorso è relativamente semplice; trattandosi si notizie non vere create per danneggiare un prodotto, è evidente che queste informazioni peggiorano le attitudini del consumatore nei confronti del prodotto, diminuendone la domanda di mercato.
Il passaggio successivo è la stima dell’effetto. Ciò che sembra del tutto razionale, ovvero che una brutta notizia possa abbassare la disponibilità a pagare del consumatore per un prodotto, non è detto che si tramuti in un cambiamento apprezzabile sul mercato. Per poter misurare il fenomeno, la scienza economica è attrezzata di strumenti statistici che consentono di calcolare dimensioni e direzioni di questi cambiamenti, ovvero se essi si sono verificati e se hanno seguito il verso previsto dal ricercatore. L’obiettivo ultimo è quello capire quali notizie causano problemi al mercato e la loro portata, al fine di disegnare politiche di tutela o intervento per i settori potenzialmente coinvolti.
Un problema grava però su questo tipo di analisi (come in realtà in tutte le scienze quantitative), si tratta della disponibilità dei dati, che devono essere in quantità e qualità tali da garantire stime attendibili. Nel caso delle “fake news” il problema è sostanziale. In effetti il fenomeno è nuovo e non esistono in letteratura casi già pubblicati di analisi del loro impatto sul mercato dei prodotti alimentari. Per poter discutere ugualmente dell’argomento si propone nel presente contributo di rifarsi a fenomeni simili e ben conosciuti, dove non è stata una “fake news” ma più probabilmente il sensazionalismo dei media a causare ingenti problemi agli allevatori. Come già accennato i casi di studio sono due: i cambiamenti di consumo di carne bovina e avicola all’indomani della diffusione della notizia che la una variazione della sindrome di Creutzfeldt-Jakob era da collegarsi al morbo della Mucca Pazza e alla scoperta delle potenziali caratteristiche epidemiche sulla specie umana dell’influenza aviaria H5N1.
La reazione dei prezzi di mercato della carne bovina alla BSE
Il 23 marzo 1996 viene data ufficialmente notizia del fatto che una variazione della sindrome di Creutzfeldt-Jakob era da collegarsi al morbo della Mucca Pazza, tecnicamente nota come Bovine Spongiform Encephalopathy (BSE). In un paper pubblicato nel 1999, Mazzocchi presenta uno dei pochi studi che fornisce una misura della reazione dei prezzi di mercato della carne “bersaglio”, suo malgrado, di questa comunicazione. Seguendo l’andamento giornaliero dei prezzi della carne bovina sul mercato di Modena pre- e post- diffusione della notizia, il ricercatore riesce in effetti ad isolare la dimensione di tale fenomeno.
Semplificando molto la trattazione, per un cui apprendimento si rimanda al paper orginale, il lavoro evidenzia tre periodi caratterizzati da cambiamenti differenti a seconda della distanza dalla diffusione della notizia e dell’intervento italiano sul mercato delle carni bovine. Tale intervento, dichiaratamente volto a tutelare la salute del consumatore, imponeva un bando all’import di carne dall’estero a partire dall’1 gennaio 1997. Il risultato finale dello studio dunque mostra che:
* Nel periodo aprile-giugno 1996, subito a ridosso della diffusione della notizia, si ha un calo drastico e generalizzato dei prezzi di mercato di qualsiasi categoria di prodotto venduto;
* Nel periodo luglio-dicembre 1996, alcune tipologie di carni bovine recuperano in valore ad indicare che, successivamente allo shock mediatico il consumatore ha cominciato a recuperare fiducia in alcuni prodotti, differenziando e identificando il prodotto rischioso in alcune categorie invece che nella carne bovina in senso lato;
* Nel periodo gennaio-giugno 1997, a seguito dell’intervento di Stato e al bando della carne bovina importata, si ha un recupero dei prezzi, fenomeno molto probabilmente dovuto ad un misto tra il recupero della fiducia del consumatore ed alla diminuzione dell’offerta di mercato imposta per legge.
Purtroppo il lavoro di Mazzocchi non integra informazioni sulle quantità scambiate, pertanto non è possibile ottenere la stima della perdita complessiva di ricavi per il settore bovino. È però vero che l’andamento dei prezzi (e l’accuratezza del modello) fanno pensare che vi sia stata una ingente diminuzione dei volumi acquistati, con altrettanto disastrosa ricaduta sul settore dell’allevamento.
L’effetto delle notizie sull’influenza aviaria sui consumi avicoli italiani
Nel 2008 sono invece Beach et al. a pubblicare la ricerca quantitativa più interessante sul rapporto consumo di carni avicole e diffusione della notizia sull’influenza aviaria. La data incriminata in questo caso è il 12 settembre 2015, data in cui esperti epidemiologi riuniti a Malta in congresso comunicano che il virus H5N1 ha tutte le caratteristiche per potersi trasformare in epidemia. Il giorno dopo le testate giornalistiche riportano titoli dai toni catastrofici del tipo “Virus dei polli – Colpirà 16 milioni di Italiani” (Corriere della Sera, versione on-line) o “Già un milione di casi e 300 morti negli USA – L’influenza colpirà il 40% della popolazione” (la Repubblica, versione on-line). Ovvia è la reazione dei consumatori italiani, che, essendo i supermercati colmi di altri prodotti sostitutivi, smettono di acquistare carne avicola. Il lavoro dei ricercatori riesce a quantificare l’effetto delle notizie riguardanti l’aviaria sui comportamenti di consumo.
In particolare, le stime mostrano un calo netto dei consumi fino al 40% nel primo semestre collegato a notizie strettamente italiane e di carattere generale, mostrando che, come nel caso della BSE, anche in questo caso la diffusione di informazioni causa una reazione avversa sul consumatore.
Conclusioni
Uno dei maggiori errori che possa commettere un ricercatore che studi il comportamento di mercato è dare la colpa al consumatore. Anzi, forse se il vecchio adagio secondo cui “il cliente ha sempre ragione” venisse adottato come regola generale da chi si occupa di economia politica, non ci si stupirebbe troppo delle analisi di Mazzochi e del gruppo che ha lavorato con Beach. Al contrario, si accetterebbe come un fatto che l’uomo non è sempre razionale. Chi ha vissuto coscientemente il periodo della BSE e ancora di più quello dell’aviaria ricorderà come appena qualche settimana dopo il primo impatto mediatico, i giornali si sforzassero a spiegare i confini reali del pericolo di contrarre il morbo di Creutzfeldt-Jakob o il virus H5N1. Eppure la sensazione di incertezza e la naturale avversione al rischio hanno spostato per un lungo periodo le preferenze italiane, con fortissimi danni per l’industria zootecnica.
L’aspetto più impressionante è osservare i dati reali relativi all’impatto reale sulla salute umana a livello mondiale di queste due zoonosi. Secondo le stime infatti negli ultimi 30 anni, la BSE ha causato 231 morti (The National CJD Research & Surveillance Unit), mentre l’aviaria H5N1 ne ha causati 451 in 15 anni (The Global Influenza Programme of WHO). Per capire meglio il livello del problema, può essere utile consultare le pagine on-line dell’Istituto di Statistica Italiana, che per esempio calcolano 675 morti per influenza non aviaria nel solo 2015 in Italia. E questo poco se si considerano i 3.989 morti per suicidio, i 22.246 morti per diabete mellito o le 512 persone decedute a causa di un avvelenamento accidentale, ovvero perché hanno ingerito qualcosa che non sapevano le avrebbe uccise (ISTAT).
Infine, pare giusto indicare chi può essere indicato come colpevole per le reazioni spropositate del consumatore a certi eventi (e l’incoscienza che invece mostrano su altri rischi). Se non è colpa dell’ignaro consumatore, allora la colpa sarà dei media, ma anche dei ricercatori. Non si può infatti pensare che i giornalisti sappiano tutto e, al netto di chi per vendere due copie in più usa il sensazionalismo con dolo, è bene che anche gli esperti (e chi li forma) si doti di strumenti comunicativi adatti alle persone comuni e quindi, citando un ultimo lavoro di Divo (2006) che si consiglia a tutti di leggere: “Se gli scienziati davvero credono nella portata del loro lavoro devono smettere di parlare in maniera specialistica e offrire anche ai comuni cittadini gli strumenti per comprendere la realtà delle cose di scienza”. Solo così si potranno costruire gli anticorpi e le medicine, se necessarie, per combattere le fake news, ma anche i sensazionalismi e la retorica di certa stampa, a volte colpevole, a volte ignorante, a volte semplicemente ignara.
Eugenio Demartini
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