Un terzo delle aree protette del pianeta è a rischio
Le definiamo aree protette, ma lo sono solo formalmente. Minacciate dalla presenza dell’uomo, di strade, ferrovie e corsi d’acqua navigabili, dai pascoli e dall’agricoltura intensiva e, in alcuni casi, addirittura dalla presenza di centri abitati al loro interno, un terzo delle aree protette, in realtà, è in pericolo.
Il quadro della realtà è leggermente diverso da quello che lo si vuol far apparire.
A lanciare l’allarme, sulle pagine di Science, è un nuovo studio che ha indagato lo stato di salute delle aree protette di tutto il mondo, valutando il livello della pressione delle attività umane su queste.
Lo studio è stato svolto in collaborazione da ricercatori dell’Università del Queensland in Australia, della fondazione statunitense Wildlife Conservation Society (WCS) e dell’Università della Northern British Columbia.
Fu durante il Summit mondiale per l’ambiente di Rio de Janeiro nel 1992, e con l’adozione della Convenzione sulla Diversità Biologica, che le aree protette vennero individuate come il principale strumento contro la perdita di biodiversità, per porre un argine decisivo alla progressiva estinzione di un numero sempre maggiore di specie animali e vegetali.
Da allora l’estensione globale delle aree protette è raddoppiata, tanto che oggi sono più di duecentomila e coprono quasi il 15% delle terre emerse con l’obiettivo, previsto dagli Aichi Tqarget, di arrivare al 17% entro il 2020.
Ma qual è oggi lo stato di salute di queste aree? Cosa è cambiato dal 1992?
Le attività umane all’interno delle aree protette possono ostacolare il raggiungimento degli obiettivi di conservazione definiti nella Convenzione della Diversità Biologica?
Per dare una risposta a queste domande, Kendall R. Jones, e il suo team hanno condotto un’analisi globale delle molteplici pressioni umane all’interno delle aree protette. A tale scopo hanno utilizzato la mappa più completa dell’impatto dell’uomo sull’ambiente terrestre attualmente disponibile.
Questa “impronta umana”, pubblicata in un articolo su Nature Communications nel 2016, era stata ottenuta combinando i dati satellitari relativi ad otto diverse tipologie di impatto umano: l’estensione delle superfici costruite, i terreni coltivati, i pascoli, la densità della popolazione umana, le luci notturne, le ferrovie, le strade e i corsi d’acqua navigabili.
I ricercatori hanno così quantificato l’entità delle pressioni umane all’interno delle aree protette di tutto il mondo.
E purtroppo i risultati dell’analisi non sono confortanti: quasi il 33% delle aree protette mondiali, infatti, subisce intense pressioni antropiche con un alto livello di degradazione.
Un’estensione di oltre sei milioni di chilometri quadrati, pari più o meno ai due terzi della Cina o al doppio delle dimensioni dell’Alaska.
Il 42% delle aree protette non è sottoposto a una pressione misurabile delle attività umane; e solo il 10% è completamente esente da attività umane, tutte in zone remote ad alta latitudine, in paesi come il Canada e la Russia.
Le aree protette più colpite dall’impatto umano si trovano in Asia, in Europa e in Africa, in zone molte popolate.
“In alcuni casi l’entità del danno è stata sorprendente. Abbiamo trovato autostrade, agricoltura intensiva e persino intere città all’interno dei confini di luoghi che dovrebbero essere salvaguardati per la conservazione dei loro habitat naturali” ha commentato Jones. “Oltre il 90% delle aree protette, come i parchi nazionali e le riserve naturali, mostra segni di attività umane potenzialmente rischiose”.
Per fortuna c’è anche una buona notizia: in alcuni casi le aree protette funzionano bene, a dimostrazione della loro efficacia nella conservazione della natura. Infatti, quelle con rigidi obiettivi di conservazione della biodiversità (categorie I e II) sono soggette a livelli significativamente inferiori di pressione umana.
Ricordiamo che, in base alla classificazione stabilita dalla Unione internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) esistono sei diverse categorie di aree protette, che riflettono gradi differenti di esposizione al disturbo umano.
A seconda della categoria a cui appartengono, le aree protette hanno diversi obiettivi di gestione, che vanno dalla protezione rigorosa della biodiversità e delle risorse con il divieto di qualunque attività umana (categorie I e II) alla conservazione della natura intesa in modo meno rigido con la possibilità di svolgere, a seconda dei casi, alcune attività a basso impatto ambientale e il prelievo sostenibile di materie prime (categorie da III a VI).
In ogni caso, l’obiettivo primario è la conservazione della natura e quindi risulta essenziale- sottolineano gli autori- mantenere l’integrità ecologica di queste aree per garantire la protezione di specie ed habitat e dei processi ecologici ed evolutivi che li sostengono.
Alcuni esempi di successo sono il Keo Seima Wildlife Sanctuary in Cambogia, il Parco Nazionale Madidi in Bolivia, la Riserva della Biosfera Yasunì in Ecuador, in cui sono stati fatti investimenti considerevoli per la conservazione della biodiversità.
Il 55%l delle aree protette istituite prima dell’adozione della Convenzione sulla Diversità Biologica ha subito un aumento della pressione umana dal 1992 ad oggi, con incrementi sostanziali nel 10% dei casi. È interessante notare che le aree protette istituite dopo il 1992 presentano un più basso livello della pressione umana all’interno dei loro confini rispetto a quelle precedenti. Questo suggerisce- secondo gli autori- che le aree istituite dopo il 1992 siano state scelte in quanto riconosciute come aree sottoposte a basse pressioni umane.
La pressione crescente esercitata dalla popolazione umana rende la salvaguardia della biodiversità sempre più dipendente dall’istituzione di aree protette. “È essenziale una rete di aree protette ben gestite per salvare le specie. Se permettiamo che la nostra rete di aree protette venga degradata, non vi è dubbio che le perdite di biodiversità si intensificheranno” ha commentato Jones.
Le attività umane all’interno delle aree protette possono compromettere la conservazione della biodiversità. Tuttavia gli autori non suggeriscono che le aree ad alta pressione vengano eliminate o non finanziate.
Al contrario. “Sappiamo che le aree protette, se ben gestite e finanziate in modo appropriato, sono estremamente efficaci nell’arginare le minacce che causano la perdita di biodiversità salvando le specie a rischio di estinzione. La sfida ora è quella di migliorare la gestione delle aree protette preziose per la conservazione della natura” ha commentato James Watson, autore senior dell’articolo. È fondamentale che le nazioni riconoscano i vantaggi che possono essere ottenuti, in termini di conservazione, se si aumenta la rigidità dei criteri di protezione e se si rispristinano aree protette degradate nel rispetto dei bisogni delle popolazioni locali. “È arrivato il momento in cui coloro che si occupano della conservazione globale richiamino l’attenzione dei governi affinché prendano sul serio la salvaguardia delle aree protette” ha concluso Jones.
Anselmo Faidit
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