La Francia e Macron sotto la violenta marea dei gilets jaunes
Studenti inginocchiati, con le mani sulla nuca, alcuni con il volto rivolto al muro, con i poliziotti che li tengono sotto stretta sorveglianza, vengono da un liceo di un sobborgo di Parigi.
Hanno fatto il giro del mondo e hanno comprensibilmente provocato l’indignazione trasversale della politica francese. Si tratta della repressione, brutale, di una protesta studentesca contro la riforma dell’istruzione.
Perché tanta violenza di Stato contro un fatto quasi abituale, quale è quello di una protesta studentesca? Non è la prima volta che la polizia francese reagisce con estrema durezza.
Il problema è che la rivolta degli studenti non è un fatto isolato, ma è uno dei tanti sommovimenti, avviati dai picchetti dei “gilet gialli”, che oggi rischiano di scoppiare in modo incontrollato.
Il movimento dei gilets jaunes non ha una struttura, né una gerarchia, né un servizio d’ordine efficace, non ha neppure dei referenti universalmente riconosciuti.
È innegabile che al suo interno si sia infiltrato di tutto, anche gruppi di estrema destra (visibilissimi, con le loro bandiere nere con croce celtica) e black block anarco-comunisti, oltre a tanti comuni teppisti che mettono a soqquadro Parigi ogni volta che ci sono manifestazioni di massa.
Il problema è prima di tutto politico. La protesta dei gilets jaunes è iniziata d’estate con una petizione per chiedere la riduzione delle tasse sul carburante (imposte per motivi ecologici, nel nome della lotta al riscaldamento globale).
Poi dalla petizione è diventata una protesta di massa, soprattutto nelle province dove è più necessario l’uso dell’auto.
E nelle settimane successive è diventata qualcosa di molto più grande e diffuso: una serie di rivendicazioni sociali, politiche, economiche, da parte di gruppi auto-gestiti con obiettivi spesso in contraddizione fra loro.
Pare che rancori e odi repressi, per ingiustizie subite o anche solo percepite, abbiano trovato la loro immensa valvola di sfogo, all’improvviso, tutti in una volta. Il movimento poliforme è diventato una sorta di sfida al potere e all’élite genericamente intesa.
I protestatari chiedono tutto ciò che i governi democratici hanno di volta in volta promesso durante le fasi elettorali, ma che i conti pubblici o le necessità imposte dalle relazioni internazionali o i vari accordi e concessioni a lobby varie non hanno permesso di elargire.
Il presidente Macron e il governo Philippe hanno ignorato completamente la protesta quando questa montava.
Esemplare l’episodio della visita del presidente a Verdun, il 9 novembre scorso: quando un anziano gli ha riferito dell’oppressione causata dalle nuove tasse ecologiste sul carburante, il capo di Stato gli ha risposto con un atteggiamento da sovrano assoluto: “Quando cambiamo le cose, sconvolgiamo le vecchie abitudini e la gente non è necessariamente contenta”.
La settimana dopo, 300mila persone erano già sulle strade a bloccare il traffico.
E il presidente li ha ignorati di nuovo. Dal governo Philippe è arrivato solo il suggerimento di usare di più i treni e i mezzi pubblici, o di comprare le auto elettriche. Alla fine la protesta è andata fuori controllo, ma solo dopo le violente proteste di Parigi, una settimana fa, il governo Philippe si è degnato di “congelare” l’aumento delle tasse sul carburante.
Scavalcando il primo ministro del governo del suo stesso partito, Macron ha direttamente annunciato l’annullamento delle imposte.
E ha promesso di recuperare il gettito con una patrimoniale, per colpire i francesi più ricchi.
Una tassa che era stata rimossa proprio per volontà di Macron e che non è affatto detto che venga realmente reintrodotta.
Troppo poco e troppo tardi: ormai il movimento dei gilet gialli si è, appunto, trasformato in un moto politico di ribellione generale, non basta più una concessione sul prezzo del carburante, adesso, per farlo sgonfiare.
È un segnale controproducente: solo la protesta violenta ha smosso il governo.
Dunque: la violenza paga.
Colpendo i ricchi a beneficio dei poveri Macron ha inoltre legittimato l’invidia sociale, proprio quella che si era ripromesso di combattere, dopo che le politiche punitive dei suoi predecessori socialisti avevano fatto fuggire imprenditori e capitali dalla Francia.
Oggi, se Parigi si sveglia con 8000 poliziotti per le strade e il centro blindato, lo si deve anche a questi madornali errori commessi da un giovane presidente che forse è sin troppo sicuro di sé.
Forse è opportuno scomodare Oscar Wilde: “MI piace sentirmi parlare. È una delle cose che mi divertono di più. Spesso sostenendo lunghe conversazioni con me stesso e sono così intelligente che a volte non capisco nemmeno una parola di quello che dico”.
Niccolò Rejetti
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