L’euro festeggia vent’anni, tra malumori ed entusiasmi
Nelle tasche di 340 milioni di europei tintinnano gli stessi spiccioli.
Da vent’anni l’euro è la valuta simbolo della Ue, una moneta capace di raccogliere attorno a sé un numero sempre crescente di cittadini e governi.
Erano undici i soci fondatori nel 1999, adesso a far parte del club sono 19 nazioni che spaziano dal Portogallo alla Lituania.
L’euro è oggi la seconda moneta più utilizzata al mondo.
Quando nel gennaio 1999 nacque l’unione monetaria e si affacciò sui mercati finanziari il nuovo simbolo sembrava che si stesse realizzando una scommessa impossibile.
Nelle case dei cittadini l’euro è entrato effettivamente solo nel 2002, ma i primi effetti positivi di una moneta stabile e transnazionale sono stati piuttosto chiari fin dall’inizio: valuta forte, transazioni finanziarie più rapide e scambi più facili all’interno del mercato unico comunitario.
Dal 2000 al 2017, per rendere l’idea,il commercio intra-Ue dei paesi dell’area euro è cresciuto dell’80%, ma alcuni governi hanno raggiunto risultati decisamente migliori.
Le esportazioni spagnole verso i paesi europei sono schizzate del 195%, in Olanda si è registrato un +111% e anche in Grecia si è sfiorato un netto raddoppio
L’Italia nel 2000 esportava in Europa 161,6 miliardi di euro e nel 2017 è salita a oltre 250 miliardi, con un surplus (export-import) triplicato da tre a quasi nove miliardi.
Il dato del Regno Unito è rimasto invariato.
Da quando c’è la moneta unica, ha sottolineato la Bce, l’inflazione dell’area euro, ovvero l’aumento generalizzato dei prezzi, è stata in media dell’1,7% all’anno e il prodotto interno lordo pro capite dell’eurozona si è stabilizzato al secondo posto su scala globale.
Chi maneggia quotidianamente le banconote firmate dal governatore della Bce, Mario Draghi, ne apprezza del resto i benefici: nel 2018 il 74% degli europei sostiene la moneta comune, nonostante le spinte sovraniste che minacciano l’Unione.
Nella sua pur breve vita, l’euro ha già fatto parecchia esperienza.
Nato quando un ciclo economico positivo andava esaurendosi, la moneta unica è riuscita a superare la feroce crisi finanziaria che ha colpito l’eurozona travolgendo Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia.
A salvare l’euro è stata la lungimiranza di Draghi che nell’estate del 2012, in piena tempesta, rassicurò i mercati promettendo che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non rinunciare al sogno della moneta unica.
E così è stato: il quantitative easing ha dato ossigeno ai governi e i tassi di interesse allo zero per cento sono stati una manna dal cielo per i prestiti a famiglie e imprese.
Per far sì che l’euro ora possa sopravvivere altri vent’anni – e andare magari ancora oltre – è necessario però che l’architettura istituzionale europea si completi attraverso una concreta unione finanziaria, politica e di bilancio.
L’obiettivo minimo è aumentare il livello di sicurezza per i risparmiatori dell’Eurozona, creare un unico autentico mercato di capitali e tutelare i singoli paesi dagli imprevisti macroeconomici che da un giorno all’altro possono travolgere chi non ha i conti in ordine. Solo così l’ecosistema potrà dirsi più sicuro se dovessero verificarsi nuovi choc finanziari in stile 2008.
La prima trave da puntellare è quella dell’unione bancaria europea.
È stata ottenuta la vigilanza unica per i grandi istituti continentali, sono stati digeriti i requisiti prudenziali più rigorosi per le banche e sono entrate in vigore le norme per la gestione degli enti in dissesto.
Manca l’attivazione di una maggiore protezione sovranazionale per i titolari dei depositi bancari, norma considerata prioritaria anche dal governo giallo-verde guidato da Giuseppe Conte.
Draghi alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ha così commentato
“Quanto maggiore sarà il progresso nel completamento dell’unione bancaria e del mercato dei capitali tanto meno impellente, sebbene sempre necessaria, diverrà la costruzione di una capacità fiscale che potrà talvolta fare da completamento agli stabilizzatori nazionali”.
Perché, proprio come avviene negli Stati Uniti d’America dove gli stati federati pescano anche da un bilancio comune, l’Eurozona a lungo andare avrà bisogno di condividere i rischi macroeconomici che inevitabilmente corrono i singoli paesi.
Per superare l’anomalia di essere un’unione di governi che remano in direzioni differenti l’area euro dovrà quindi lavorare sodo sull’unione fiscale, considerata la più naturale forma di condivisione dei pericoli finanziari e di ridistribuzione delle risorse tra ricchi e poveri.
Superando forse un giorno anche le storiche distinzioni tra Nord-Sud Europa.
Salvarico Malleone
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