Lessico femminile, le donne tra impegno e talento 1861–1926
Una mostra di grande attualità appena inaugurata a Palazzo Pitti come ha dichiarato Eike D. Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi, il 5 febbraio 2019, per lo State of the Union, il discorso tenuto annualmente dal Presidente degli Stati Uniti davanti al Congresso presente a sezioni congiunte -, la maggior parte delle esponenti del partito democratico si sono presentate vestite di bianco.
L’effetto cromatico e simbolico, un vulnus nella massa scura e compatta dell’auditorio, è stato più forte di tante grida di protesta, di tante dichiarazioni di dissenso: un vero e proprio manifesto. In una cultura per molti aspetti ancora misogina, dove per pari responsabilità le donne continuano ad essere generalmente retribuite meno degli uomini, e dove si delibera spesso a danno dei loro diritti, la macchia bianca creata dal loro raggrupparsi ha ricordato a tutti, con elegantissima acutezza, gli ideali che quelle esponenti politiche rappresentano, e le conseguenze che la loro missione potrà avere su un largo strato della popolazione.
L’accadimento nel Congresso statunitense è solo l’ultimo, in ordine cronologico, di un movimento di riscatto femminile e di coscienza del peso che la donna può rivendicare nella società, nato come si sa già in Inghilterra a metà dell’Ottocento e faticosamente cresciuto all’interno di un ricattatorio sistema di doveri biologici da ottemperare e convenzioni sociali da smantellare. Il ruolo esclusivo di moglie sottomessa e virtuosa, di madre sollecita, si aprì poco alla volta ad altre prospettive non meno eticamente ortodosse, ma fino a quel momento spesso considerate illegittime, se non rivoluzionarie.
Fu probabilmente un’economia stremata dalle guerre civili del Risorgimento ad aprire in Italia un varco anche alla compagine femminile, permettendo la fioritura – e spesso approfittandone – delle risorse che essa offriva.
Ed è alle donne che si deve la sopravvivenza del Paese durante la Prima Guerra Mondiale, quando dovettero giocoforza sobbarcarsi il lavoro prima svolto dagli uomini, per la maggior parte reclutati nell’esercito o morti al fronte. In tempo di pace, se nel mondo rurale la divisione dei compiti rimase più o meno la stessa, è in quello operaio, borghese e intellettuale che si opera il cambiamento.
I saggi nel bel catalogo edito da Sillabe illustrano una situazione che, seppur nell’aria da tempo, in Toscana vide il suo battesimo ufficiale con la fondazione, nel febbraio 1861, della Fratellanza Artigiana – all’epoca la più importante associazione operaia in Italia – e l’iscrizione delle prime donne nei suoi ranghi.
La mostra cui il volume si accompagna vuole soprattutto illustrare il cambiamento di quegli anni, permettendo –attraverso i ritratti di contadine, operaie, signore dell’alta borghesia e nobildonne, scene di interni e gruppi di famiglia, plein air popolati di lavoratrici o giardini abitati da fanciulle intente a leggere – una più profonda riflessione sulla vita e sulle condizioni dell’universo donna del tempo.
Si incontrano figure di artiste come la scultrice Félicie de Faveau, che dopo i successi parigini si trasferì nel 1833 a vivere a Firenze, ingrossando le fila già numerose della colonia internazionale presente in città, e che perseguì fin da giovane l’indipendenza economica attraverso il lavoro, come forma primaria di emancipazione. Ricordiamo tra le altre Maria Lavinia Fiorilli, che si dedicò anche alla tecnica ardua dell’incisione ad acquaforte, o Candida Natiello Colosimo e Juana Romani, che frequentarono l’Accademia di Belle Arti in un’epoca in cui perfino studiare nella classe di nudo per una donna era considerato disdicevole.
O come Ryta Bordini che, come dice il nipote nel saggio a lei dedicato, non poté essere artista, malgrado ne avesse la vocazione. Fu proprio per le sue condizioni privilegiate, dunque esposte e condizionate dalle catene sociali imposte nell’ambiente fiorentino, che la Bordini fu costretta a relegare la pittura e il disegno ai momenti di svago senza tuttavia rinunciare ad essere un’intellettuale raffinata.
La principessa Anna Maria dé Ferrari si dedicò alla fotografia, ma nel suo caso fu certamente il cosmopolitismo in cui si trovò a vivere fin dalla nascita, la madre russa il marito principe Borghese, ma soprattutto viaggiatore ed esploratore – a stimolare una mentalità aperta e sperimentale.
Come avvenne nel caso di Elisa Pante Zonaro, che viaggiò da Istanbul a Parigi per divenire fotografa e che certamente grazie al suo spirito avventuroso fece la fortuna del marito pittore. Ma il catalogo appunta la nostra attenzione anche su chi stava su gradini diversi della scala sociale: ad esempio sulle modelle degli artisti, a volte ingenue, a volte spregiudicate, in genere bellissime, che incarnano l’ideale estetico femminile di quel tempo, e che nel saggio di Roberto Giovannelli prendono vita, con nomi e storie personali.
D’ora in poi riusciremo a osservare le opere d’arte di quel periodo senza pensare anche a loro? A quella Tuda che diviene la Diana commissionata da Pirandello a Libero Andreotti, o alla giovinetta Vittoria Caldoni, una contadina laziale che riuscì ad ispirare i più grandi scultori e pittori da Thorvaldsen a Tenerani, da Horace Vernet a Overbeck?
Vi è poi tutto l’esercito di artigiane – ricamatrici, trecciaiole, sarte, e via dicendo – e di piccole imprenditrici, di scrittrici che faticavano ad emergere e talvolta dovevano usare pseudonimi maschili. Di maestre che avrebbero potuto essere autorità accademiche, e che invece trascorsero la vita a insegnare soprattutto nelle scuole primarie, forgiando ragazzini che – specialmente se maschi – avrebbero avuto la possibilità di accedere agli studi universitari e alle cariche professionali più alte.
Ma vi sono anche, sorprendentemente, saggiste di critica del cinema, che ne scrissero quando quell’arte era ancora nuovissima; e poi la naturalista Marianna Panciatichi Ximenes d’Aragona Paulucci, malacologa, botanica, ornitologa di fama internazionale, che raccoglieva la sua straordinaria raccolta nel Castello di Sammezzano. Non ebbe mai incarichi accademici, perché come ci ricorda in catalogo Fausto Barbagli, la studiosa aveva già oltre sessant’anni quando la zoologa Rina Monti vinse nel 1907 la prima cattedra universitaria assegnata a una donna in Italia, all’Università di Sassari.
Sono solo alcune delle figure femminili che si scoprono leggendo le pagine che seguono, densissime di stimoli, molto più che un’indagine sociologica e culturale della società italiana, e toscana in particolare, tra Otto e Novecento.
Il titolo geniale, “Lessico femminile”, ideato da Simonella Condemi, cui si deve il concetto della mostra e del catalogo nonché la realizzazione di tutta l’iniziativa, ci porta appunto a considerare il genere femminile a tutti i livelli, e il suo ruolo non violento ma determinante nella vita familiare, intellettuale, politica, quotidiana: che siano maestrine, trecciaiole, analfabete o senatrici vestite di bianco.
Info: www.firenzemusei.it
Roberto Cantini
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