Interrogativi amnesie e lacune della Brexit, bolgia inglese
Bisogna tornare al 23 giugno 2016, data del referendum d’oltre Manica, allorquando la maggioranza degli inglesi decise di abbandonare l’Ue.
Ci avviciniamo al terzo anno e a Londra ancora non hanno stabilito le modalità di uscita.
Nelle ultime ore Theresa May per la terza volta ha dovuto incassare una sonora sberla nell’austero salone di Westminster sulla sua proposta di negoziato.
Sberla che ha lasciato il segno, 344 deputati hanno votato contro l’intesa voluta dalla premier ed appena in 286 si sono espressi favorevoli.
Per superare l’ostacolo servivano 318 voti.
Il caos regna sovrano, le consultazioni elettorali per il rinnovo del parlamento europeo si svolgeranno tra il il 23 ed il 26 maggio prossimo ed entro quella data a Westminster devono approvare le modalità del commiato europeo.
Qualora ciò non avvenisse anche i sudditi di Sua Maestà Elisabetta dovranno recarsi alle urne.
Per ottenere una proroga serve il consenso di tutti i 27 membri dell’Ue.
Secondo il pensiero della May il governo continuerà ad agire affinché “la Brexit sia attuata”.
Di parere opposto Jeremy Corbyn, leader laburista dell’opposizione, secondo il quale la premier deve cambiare i contenuti dell’accordo oppure indire subito le elezioni generali.
Per ora Donald Tuisk, presidente del Consiglio Ue, ha convocato il consiglio il 10 aprile in seduta straordinaria.
La strategia di Theresa May di negoziare un accordo Brexit che tagliasse i legislatori fuori dal giro quasi fino alla fine, per poi cercare di convincerli ad accettare il suo piano preferito, si è dimostrato un flop prevedibile.
Il Parlamento ha cominciato troppo tardi a cercare un metodo con cui sottrarre il controllo alla May per tentare di fare qualcos’altro.
Al primo ministro va riconosciuto che il suo lavoro era e rimane impossibile.
È discutibile dire che un altro leader avrebbe potuto fare meglio, se per meglio si intende un accordo Brexit meno divisivo e più conclusivo.
La Brexit è strettamente connessa con la considerazione che la Gran Bretagna ha di se stessa come paese.
I brexiteers, i fautori dell’uscita, l’hanno sempre capito. Il loro messaggio agli elettori nel 2016 era incentrato su un particolare senso di britannicità, britishness.
Era una nostalgia rosea per una Gran Bretagna grande potenza strategica e industriale, quella che sconfisse Napoleone, governò un lembo di tutti i continenti, vinse le catastrofiche guerre europee del XX secolo, coltivò un’economia dinamica: e che poteva fare di nuovo tutto ciò solo se liberata dagli ingombranti burocrati di Bruxelles.
Secondo i brexiteers, i fautori del no alla Brexit promettevano solo una Gran Bretagna supina di fronte all’imperialismo burocratico franco-tedesco, multiculturale al punto da snaturare la società britannica di ogni evidente britishness, prostrata di fronte alle forze della globalizzazione deindustrializzante.
I brexiteers hanno avuto ragione nel diagnosticare il malcontento della società britannica per vincere un referendum una tantum, pensavano che il referendum avrebbe risolto questi dibattiti, ma li ha solo avviati.
Ciò è emerso con chiarezza sul caso del confine nordirlandese, il problema più traumatico della Brexit.
Il Regno Unito è parte di un accordo di pace del 1998 che lo impegna a mantenere un confine aperto tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda.
Senza un’adesione comune dell’Unione europea su entrambi i lati del confine, sarà un’impresa difficile da portare a termine.
L’Irlanda del Nord sfida uno dei miti fondanti dei Brexiteers, quello secondo cui la Gran Bretagna ha sempre prosperato quando era nazione sovrana e autonoma.
In realtà, ha sempre fatto fatica a governare se stessa per gran parte della sua storia, poiché le tensioni regionali hanno minacciato costantemente di distruggerla.
Dopo decenni di terribili violenze settarie, il Regno Unito ha potuto governare in Irlanda del Nord solo cedendo un po’ di sovranità sui suoi confini.
Basta guardare la Scozia, che ha votato nel 2014 per rimanere nel Regno Unito grazie a un risicato 55% di sì contro il 45% di no, e solo dopo essere stata avvertita che questo era l’unico modo per rimanere nell’UE.
In entrambi i casi, l’adesione all’UE (popolare in Scozia e vitale in Irlanda del Nord) ha tenuto insieme il Regno Unito.
Il mito e la realtà della comprensione britannica di se stessa si sono scontrati anche sugli aspetti economici della Brexit.
L’idea di una Gran Bretagna globalizzata che attrae investimenti fuori dal continente è al centro della logica economica della Brexit.
Tuttavia, un’indagine del 2017 della Populus ha rilevato che il 56% dei britannici preferirebbe imposte più elevate, un governo più presente in economia e una spesa pubblica più alta rispetto al 41% che vuole l’esatto contrario.
Il laburista Jeremy Corbyn ha guadagnato seggi nelle elezioni del 2017 su un impegno a nazionalizzare le industrie.
La Gran Bretagna richiederà un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti per prosperare dopo la Brexit, ma dovrà lottare per ottenerlo.
Gli elettori britannici si rifiuteranno di liberalizzare il loro amato sistema sanitario di stile socialista, così come richiederebbero gli Usa, e si aggrapperanno alle regole agricole in stile europeo che stanno affondando altri negoziati commerciali con Washington.
Di questi tempi, le crisi di identità sono una caratteristica importante della politica in Occidente.
Ma la Brexit ha reso questa crisi particolarmente acuta, costringendo la Gran Bretagna ad affrontare la risposta a queste domande avendo a disposizione una scadenza impossibile, due anni.
Non c’è da stupirsi se la GB sì è è bloccata in quello che avrebbe dovuto essere il Brexit Day.
Riccardo Dinoves
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