Il trono del despota Erdogan mostra segnali di cedimento
Le consultazioni amministrative del 31 marzo hanno ridimensionato lo spirito baldanzoso di Recep Tayyip Erdogan.
Le città più importanti della Turchia saranno amministrate dai partiti dell’opposizione a partire dalla capitale Ankara, e poi Istanbul, Smirne e altre ancora.
Il suo partito, l’Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) conserva la maggioranza con il 45% ma è in costante discesa soprattutto nelle città e nelle zone industriali a differenza dei piccoli centri dell’entroterra che rimangono le sue roccaforti.
Smirne, terza città turca e tradizionale roccaforte laica, resta saldamente nelle mani dell’opposizione con Mustafà Tunc Soyer.
Alla coalizione governativa di Erdogan strappano tutta la fascia mediterranea, togliendo alla destra islamica e nazionalista Adana e Antalya, centri chiave per l’economia e il turismo.
Anche i curdi, che si erano concentrati sul Sud-Est del Paese, si riprendono molte città, compresa la loro capitale Diyarbakir, commissariata dal governo centrale insieme a un centinaio di altri Comuni con accuse di terrorismo per presunti legami con il Pkk.
E per la prima volta nella storia turca, un capoluogo di provincia, Tuncedi nella parte orientale, sarà guidato da un comunista, Mehmet Fatih Macoglu.
Il voto di domenica è stato accompagnato da episodi di violenza soprattutto nel Sud-Est del Paese, spesso teatro di scontri tra clan rivali durante le elezioni, con almeno quattro morti e decine di feriti.
Numerosi anche gli osservatori invitati nella regione dall’Hdp, tra cui due italiane che sono state brevemente fermate e interrogate dalla polizia.
A Istanbul, si sono vissute ore di stallo. Nella città sul Bosforo a imporsi è stato il candidato dell’opposizione Ekrem Imamoglu.
Secondo i dati ufficiali diffusi dall’agenzia statale Anadolu, a Istanbul, Imamoglu ha ottenuto il 48,79% dei consensi, circa 25 mila voti in più dell’ex premier Binali Yildirim, fermatosi al 48,51%.
Il candidato del Chp ha ottenuto 4.169.987 voti, mentre quello dell’Akp si è fermato a 4.146.042.
Mentre ad Ankara il candidato del socialdemocratico Chp Mansur Yavas rivendica il successo davanti a una folla in festa, tra fumogeni e bandiere della Turchia.
Per la prima volta da un quarto di secolo la capitale è sfuggita al controllo dei conservatori islamici. Una svolta vera e propria nella politica turca.
Lentamente le opposizioni conquistano territori stanchi del regime erdoganiano che furono decimate a seguito dell’incomprensibile tentativo di colpo di Stato del 16 luglio 2016.
In quei giorni Recep si liberò di quanti gli creavano grattacapi nella vita civile, militare e religiosa.
È un Paese che vuole cambiare e sottrarsi alle regole musulmane che sta tentando di imporre il suo presidente.
Nel 1998 Erdogan durante un comizio pubblico, in quei giorni era sindaco di Istanbul, ebbe a dire: “Le moschee sono le nostre barricate, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”.
La popolazione oramai è stanca e insofferente, la Turchia la scorsa estate ha subito una gravissima crisi valutaria con una forte svalutazione della lira nei confronti del dollaro.
Per questo a ottobre l’inflazione è arrivata al 25% per poi fermarsi a fine anno intorno al 20%. Ciò ha impresso un forte impatto negativo sugli elettori.
Il malumore oltre che di natura religiosa è di natura economica, quando lo Stato ha smesso di finanziare gli investimenti in infrastrutture in contemporanea sono arrivati i dazi degli Stati Uniti sui prodotti turchi, per cui l’economia ha iniziato a rallentare.
Sono aumentati così tanto i prezzi dei prodotti alimentari che a febbraio il governo ha aperto a Istanbul e Ankara dei punti vendita di ortaggi, la base della cucina turca, a prezzi scontati perché sovvenzionati al governo, ma che di certo non sollevano l’economia nazionale.
Ora si tratta di osservare la reazione di Recep e dei suoi fedeli, sino al 2023 le urne restano chiuse e le opposizioni potranno continuare a demolire il colosso d’argilla.
Niccolò Rejetti
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