Prima o poi arriva il desiderio di non volersi integrare
Per non affrontare i problemi concreti e quotidiani, di quelli veri della massaia, si preferisce discernere su argomenti distanti dalla realtà: fascismo e razzismo.
Il fascismo è deceduto nel 1945, il razzismo non è mai esistito in Italia né tantomeno esiste oggi.
Nel nostro Paese dimorano oltre 5 milioni di stranieri provenienti dai cinque continenti per cui qualora vi fossero segnali di razzismo la maggioranza di costoro tornerebbe sul suolo natio.
L’argomento viene propagandato per interesse in quanto numerose enti e cooperative biancorosse hanno lucrato e tanto su centinaia di giovanotti sbarcati sulle nostre coste convinti di trovare l’eldorado.
Oltretutto convinti che lo Stato Italiano debba obbligatoriamente accogliergli, passargli il salario, albergo, ristorante multietnico e collegamento internet. Scelgono perciò di non integrarsi.
Il non volersi integrare genera ghetti, banlieu e isolamento. Ed è quanto si sta verificando nelle università americane.
È stato pubblicato un rapporto della National Association of Scholars (Nas) che ne conferma l’esistenza con precisione scientifica.
La Nas lo chiama “neo-segregazionismo”, non solo perché la tendenza riemerge dopo che per decenni ci siamo convinti che fosse soltanto un brutto ricordo, ma anche perché tra il vecchio e il nuovo segregazionismo c’è una differenza importante: oggi sono le minoranze organizzate a pretendere la creazione di ghetti in cui rinchiudersi volontariamente.
Lo studio della Nas ha individuato negli Usa ben 173 college e università che in vario modo incoraggiano e agevolano di fatto la segregazione razziale, naturalmente nel nome dell’eguaglianza, dell’inclusività e della lotta al “white privilege”.
Programmi didattici, club, seminari, corsi, alloggi, perfino cerimonie di laurea: gli aspetti che possono assumere una “colorazione esclusiva” nei campus americani sono i più svariati.
Si legge nel rapporto:
Quello che abbiamo scoperto è che il neo-segregazionismo è ampiamente diffuso, se non pervasivo. Circa il 46% (80 dei 173 college presi in esame) segrega i programmi di orientamenti per gli studenti, il 45% (75 college su 173) offre alloggi residenziali segregati; e il 72% (125 college su 173) segrega le cerimonie di laurea.
Esistono poi “safe space” segregati (già in una istituzione educativa è assurdo il concetto di ‘safe space’, figuriamoci il safe space ‘only for blacks’), programmi di tutoraggio segregati, borse di studio assegnate su base razziale, piani di assunzione del personale divisi per quote, eventi riservati agli studenti di colore, eccetera.
Non a caso all’uscita del rapporto anche il Wall Street Journal ha ospitato un commento firmato dai due autori, Dion Pierre, per altro è un uomo di colore, e Peter Wood, presidente dell’associazione.
La preoccupazione dei due ricercatori è che l’idea di combattere il razzismo con la segregazione finisca per sortire l’effetto opposto a quello immaginato:
Il danno più evidente prodotto da questo segregazionismo è che si alimenta il senso di insicurezza. Ai membri dei gruppi segregati si insegna ad avere paura degli altri gruppi, in particolare degli studenti bianchi. Vengono incoraggiati a guardarsi come vittime o vittime potenziali, e come eredi di antichi soprusi. Quando si avventureranno fuori dalla bolla segregata, gli studenti potrebbero finire per imbattersi in atteggiamenti ostili e stereotipi razziali, ma di certo è meglio imparare ad affrontare queste cose piuttosto che a nascondersi.
Presentando i risultati della ricerca, Pierre ha detto di essere convinto «che la segregazione in qualunque forma mini il nostro senso di comunità nazionale, riduca la qualità della vita intellettuale nei campus e perpetui un pensiero razziale che credevamo screditato».
Wood e Pierre si soffermano sul caso del celebre ateneo di Yale, a cui è dedicato un approfondimento nello studio. Storicamente è proprio a Yale che la minoranza afroamericana ha iniziato a organizzarsi per portare avanti l’«agenda separatista» descritta dal Nas.
La Wesleyan University a Middletown, Connecticut, è stata il primo istituto ad adottare la segregazione residenziale creando la Afro-American House (ora chiamata Malcolm X House) intorno al 1968. Nel 1972 la Cornell iniziò ad accogliere gli studenti neri nel suo Ujamaa Residential College, un dormitorio da 144 posti riservato ai neri che hanno una “conoscenza personale” dell’esperienza nera. Altre scuole di élite, come la Columbia University (Pan African House), il Massachusetts Institute of Technology (Chocolate City), la University of California Berkeley (African American Theme Program), la Stanford University (Ujamaa) e l’Amherst College (Charles Drew House), hanno intrapreso iniziative simili. Nel 2016 la University of Connecticut ha aperto la Scholars House per studenti maschi neri.
Tutto cominciò con la richiesta da parte della Black Students Association at Yale (Bsay) di una inclusione reale, non solo di facciata, della minoranza nera.
Preoccupatissimo di portare avanti un concreto impegno contro l’ingiustizia razziale, l’ateneo si affrettò a smontare la sua vecchia politica di selezione dei candidati migliori all’interno della comunità afroamericana e iniziò a reclutare neri a prescindere dai loro risultati nei test e da altri obiettivi accademici», nella convinzione che fosse possibile «trasformare chiunque in un uomo di Yale.
Secondo quanto ricostruito dai ricercatori della Nas, la scelta si rivelò un errore, in primis per gli stessi studenti neri arruolati senza criteri di merito: «Oltre un terzo dei 35 studenti neri immatricolati da Yale nel 1966 mollarono nel primo anno, molti altri non riuscivano a tenere dietro ai ritmi di studio e non si sentivano accolti».
Ma invece di tentare di migliorare il rendimento di quei ragazzi, l’università avviò la spirale segregazionista iniziando a trattarli appunto come una categoria a parte, e di fatto incoraggiando così il Bsay a pretendere sempre di più: alloggi separati, curriculum di studi afroamericanizzati, docenti ad hoc con sensibilità adeguate e via dicendo.
Il resto è storia di oggi.
Salvarico Mellone
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