Per la frutta è battaglia continua e perde sempre il contadino
Fragole italiane, la Spagna ha rovinato (o sta rovinando) tutto, anche sul fronte export.
Kiwi italiano (Hayward), la Grecia sta rovinando tutto.
Clementine italiane, la Spagna ha già rovinato tutto.
Le pere italiane, chi le ha rovinate?
Mah … i prezzi comunque non sono remunerativi.
E altre campane a morto suonano dalla Puglia per l’uva da tavola e le verdure invernali.
In questi giorni si susseguono impietosi bollettini di crisi che segnalano l’annata “no” per frutta verdura che sono il vanto della nostra produzione, cavalli di battaglia anche per il nostro export.
Mi si consenta una digressione personale.
Ieri sono andato a fare un po’ di spesa al mio mercatino rionale a Bologna, nulla di lussuoso, nessuna boutique dell’ortofrutta, solo tanti banchi (senza celle frigo) gestiti a livello familiare che propongono qualità discreta, medio-buona, (nessun pachistano per intenderci con i cartellini a 0,99 al chilo).
Ebbene ho comprato 2 kg di Tarocco (calibro piccolo), un mazzo di asparagi, un po’ di insalata, 3 cipollotti Tropea, 1 mazzetto di ravanelli, ho speso quasi 18 euro.
Voglio dire: l’ortofrutta al dettaglio costa, gli stessi prezzi del mio mercatino li si può trovare sui banchi di qualche store di medie dimensioni (Coop, Eurospar, Conad) nelle vicinanze.
I tempi dei cartellini sotto i due euro sono lontani, ormai sono stabilmente tra i 2-2,5 e i 3 euro/kg. Se poi andiamo su prodotti particolari (kiwi giallo, esotico, biologico, primizie di stagione) o su IV e V gamma i prezzi salgono ancora.
I consumatori, che generalmente guardano poco ai prezzi, spendono meno perché hanno meno soldi e si accorgono che lo scontrino alla fine è sempre più alto.
Così i consumi calano o sono stagnanti e alla GDO manca fatturato, tranne che per le catene dei discount (dove i prezzi sono nettamente più bassi).
Sintesi: il prodotto di qualità medio-buona non viene svenduto dagli intermediari (catene, mercati rionali e dettaglianti), viene solo pagato poco ai produttori.
Di qui le lamentele del mondo produttivo, un coro funebre che si ripete più o meno uguale da un anno all’altro, aggravato da tre circostanze: l’aumento della concorrenza internazionale; la domanda che si rarefà con l’aumento dei prezzi; la destagionalizzazione dei consumi e dei prodotti.
C’è frutta e verdura di tutti i tipi quasi 12 mesi all’anno, con i relativi prezzi che variano in base alla provenienza e alla stagionalità.
E con un elemento che confonde: i prezzi variano dal Nord al Sud in maniera importante.
Quando vado in Puglia o Sicilia mi accorgo che, soprattutto al dettaglio, i cartellini (quando ci sono) indicano valori del 30/40 % in meno rispetto al Nord.
Cosa voglio dire? Che se per il consumatore la battaglia dei prezzi è un porto delle nebbie, dove è quali impossibile orientarsi, per i produttori la battaglia dei prezzi è quasi impossibile, forse perduta in partenza.
E infatti qual è la ricetta dei produttori davanti alla domanda: che fare?
Come risollevare il valore dei prodotti?
La risposta è più o meno sempre la stessa: più aggregazione, più ricerca, nuove varietà, più servizio, più valorizzazione, più promozione, più marketing.
Quasi sempre però questi sono costi in più per le imprese (si pensi alle certificazioni), che non vengono ripagati dal prezzo finale.
E anche l’aggregazione, quando funziona, non sempre è risolutiva: vedi il caso di Opera per le pere, una grande aggregazione ma i prezzi all’origine restano insoddisfacenti.
E poi spesso ci si aggrega tra concorrenti, e va bene, ma senza un ufficio commerciale unico ognuno poi va per la sua strada e prevalgono gelosie e lotte intestine.
Forse le uniche aggregazioni che hanno funzionato davvero sono quelle (di lunga data) delle mele in Trentino Alto Adige, ma anche qui i tempi d’oro sono finiti e la concorrenza polacca si fa sentire.
Le catene dal canto loro chiedono più qualità e più programmazione: richieste sacrosante, per carità, perché loro rispondono al consumatore che chiede qualità e “prezzi bassi e fissi”. Però spesso (quasi sempre, secondo molti) la richiesta del prezzo più basso prevale su tutto.
Concludendo: la volatilità dei mercati è ormai un fatto strutturale, i concorrenti sono ovunque in Europa e fuori, i prodotti entrano da ogni parte, tutto l’anno, e hai voglia a chiedere più controlli … Chiedere dazi è esercizio inutile, finché siamo in Europa, in ‘questa’ Europa.
Parlare di vendita diretta può andare bene per nicchie di mercato.
Parlare di ritorno all’orto dietro casa o in terrazza è puro folclore.
Insomma, il valore delle produzioni dipende da una serie di fattori che sono in larga parte imprevedibili, variabili fuori dal nostro controllo.
Per affrontare questa volatilità di prezzi, per fare ricerca e innovazione, per affrontare nuovi mercati servono spalle robuste, aziende strutturate; serve una rappresentanza che faccia lobby, serve una politica che aiuti davvero le imprese, che le ‘costringa’ a fare sistema, a lavorare davvero assieme. Spingere sull’aggregazione va bene, benissimo, ma da sola non basta.
Aggregarsi per fare cosa?
Per ridurre i costi … e poi?
Lorenzo Frassoldati direttore del Corriere Ortofrutticolo
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