Entro il 2070 il Made in China diventerà Made in Africa
In Etiopia lo stipendio medio di un impiegato o di un operaio è inferiore a 50 dollari.
Già qualche azienda sta riflettendo sulla delocalizzazione che sino a ieri è avvenuta in Oriente e domani potrebbe potrebbe essere il continente nero.
L’Africa potrebbe diventare la nuova Cina. Il Financial Times va oltre e fissa una scadenza ben precisa.
Entro 50 anni l’etichetta Made in Africa prenderà il posto della più nota dicitura Made in China.
Non solo: i prodotti cinesi a basso costo che oggi abbondano sugli scaffali occidentali saranno sostituiti da quelli africani.
Una trasformazione simile del continente cero non è scontata, ma ci sono i segnali a volte parecchio evidenti perché ciò possa presto trasformarsi in realtà.
Le previsioni, si sa, sono fatte per essere smentite eppure in Africa sta succedendo qualcosa di importante. La Cina è diventata il motore principale della mutazione africana.
I dati del China Investment Global Tracker raccontano che dal 2005 al 2018 Pechino ha investito in loco 299 miliardi di dollari e altri 60 seguiranno presto la stessa strada.
È pur vero che gli investimenti cinesi in alcuni Stati africani hanno fatto schizzare il debito dei governi locali alle stelle, arrivando a toccare quota 130 miliardi di dollari negli ultimi 18 anni; ma dall’altra parte grazie agli eredi di Mao Tse Tung sono sorte infrastrutture indisepnsabili come strade, ferrovie, porti e aeroporti.
Da 15 anni a questa parte la quasi totalità dei Paesi africani sta attraversando una crescita economica. I settore dei servizi e delle telecomunicazioni si stanno diffondendo a macchia di leopardo in tutto il continente.
Basti pensare che l’utilizzo di cellulari, internet e servizi finanziari vari ha raggiunto picchi elevati nonostante la povertà di alcune aree.
Dire che l’Africa è in procinto di risolvere i suoi problemi è alquanto esagerato, ma sicuramente gli interessi della Cina aiuteranno il continente ad uscire dalle sabbie mobili, dalla fame, dalla sete e dalla miseria.
L’emulazione africana del miracolo cinese rappresenta una soluzione plausibile e un buon punto di partenza.
Imitare il comportamento di Pechino significa investire nel settore industriale e basare la propria economia sulle esportazioni di beni a basso costo.
Proprio come a suo tempo fece la Cina.
Qualora l’Africa riuscisse davvero a diventare la Cina moderna, allora questo continente rappresenterebbe un avversario per gli stessi cinesi.
Alle merci prodotte nel continente nero servono appena una quindicina di giorni per approdare in Europa con un trasporto via mare; i beni asiatici impiegano quasi due mesi.
Certo, da qui a quando l’Africa ricoprirà (se mai riuscirò nell’intento) questo ruolo, Pechino avrà probabilmente smesso del tutto di essere la fabbrica del mondo.
Però esiste anche il rischio che la Grande Muraglia punti sulle esportazioni manifatturiere in Europa; molto dipenderà dall’esito della guerra commerciale con gli Stati Uniti.
Di sicuro una prospettiva come questa creerà non pochi problemi all’economia europea, che potrebbe essere invasa da merce di bassa qualità per una seconda volta, dopo l’ondata degli anni ’90.
Nel frattempo, però, la Cina sta allevando una nuova classe dirigente africana senza intromettersi negli affari di politica interna.
Gli investimenti cinesi da quelle parti creano infrastrutture basilari, utili sia dal punto di vista civile che commerciale.
Lo step successivo per Pechino sarà piantare nel contesto sub-sahariano il seme delle nuove tecnologie: auto elettriche, intelligenza artificiale, sistemi di videosorveglianza e via dicendo.
In effetti sempre più Paesi africani hanno effettuato un salto tecnologico enorme, passando dall’uso di tecnologie obsolete all’avere tra le mani i dispositivi più moderni e avanzati.
Se i politici africani non sprecheranno queste piccole sacche embrionali di sviluppo, sì: l’Africa potrebbe davvero diventare la nuova Cina
Salvarico Malleone
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