La Pechino rossa che vuole reprimere Hong Kong
Ai cinesi proprio non gli riesce di togliersi di dosso il vetusto doppio petto comunista, magari qualche volta tentano di cambiargli colore e da rosso cercano di tinteggiarlo bordeaux ma senza scostarsi troppo dal colore originale.
Nei giorni scorsi nella stanze del potere di Pechino nessuno ha voluto esprimere condanna per i fatti del 4 giugno 1989 in Piazza Tienamen sebbene siano oramai trascorsi trent’anni.
Oggi la protesta si è spostata da Pechino ad Hong Kong dove centinaia di migliaia di giovani e anziani sono scesi in piazza.
La Cina ha posto un altro tassello per fagocitare Hong Kong e all’orizzonte non si intravedono buoni segnali.
Il governo locale, palesemente dietro pressione del regime di Pechino, sta introducendo una nuova legge che concede l’estradizione alle autorità della Repubblica Popolare.
Tutti gli attivisti per i diritti umani, gli anticomunisti, i perseguitati per la loro fede, che hanno trovato rifugio nell’unica oasi di libertà in Cina, saranno in pericolo.
Ad introdurre la nuova legge sull’estrazione è Carrie Lam, la prima donna a capo dell’esecutivo di Hong Kong. La Lam, alias di Cheng Yuet-ngor, classe 1957, è stata attivista per la democrazia quando era ragazza negli anni Settanta.
Poi, laureatasi nel Regno Unito, ha iniziato una lunga carriera di successo nella burocrazia della città-Stato.
Fino a diventare braccio destro di Leung Chun-ying, il precedente capo dell’esecutivo.
Candidata nelle elezioni di Hong Kong, che non sono per suffragio universale, ma coinvolgono una ristretta cerchia di privilegiati, si è presentata come la più esperta e anche la più attenta alle questioni sociali.
Con la lista “We connect” (noi connettiamo) e all’insegna del motto “noi curiamo, ascoltiamo, agiamo”, ha vinto le elezioni con 777 voti su quasi 1200 aventi diritto al voto ed è entrata in carica il 1 luglio 2017.
Un motto (curiamo, ascoltiamo, agiamo) che assume un sinistro suono totalitario, se letto alla luce dell’appoggio che il Partito Comunista Cinese le ha implicitamente fornito durante la campagna.
Lo avrebbe confermato Zhang Dejiang, allora presidente del Congresso Nazionale del Popolo (il “parlamento” della Cina popolare): l’Ufficio del Partito Comunista aveva deciso di sostenere Carrie Lam nelle elezioni.
Tutto sommato c’era da attenderselo, considerando che Carrie Lam era una delle maggiori artefici della riforma costituzionale del 2014, quella che è stata vista da gran parte dell’ambiente democratico di Hong Kong come un allontanamento ulteriore dalla prospettiva del suffragio universale: sarebbe stato un voto solo teoricamente universale, ma di fatto pilotato da un comitato esecutivo.
Ad Hong Kong, nel 2014, era scoppiata la protesta di massa chiamata Occupy Central, per la sua pacifica occupazione del centro direzionale della città-Stato, o “rivolta degli ombrelli”, per l’uso che i manifestanti ne facevano per proteggersi, non solo dalla pioggia, ma anche dai lacrimogeni lanciati dalla polizia.
E fu una protesta soprattutto contro la riforma costituzionale voluta e introdotta da Leung Chun-ying, con la collaborazione decisiva di Carrie Lam.
Un progetto poi sconfitto al Consiglio Legislativo nel 2015, per il quale però l’attuale capo dell’esecutivo si era spesa in prima persona, confrontandosi più volte, pubblicamente, con gli studenti in protesta.
La sua popolarità, fra il 2014 e il 2015, ha toccato il punto più basso presso l’opinione pubblica, ma i cinesi devono averne ricavato un’ottima impressione.
di voler colmare un vuoto legislativo, che finora avrebbe permesso a Hong Kong di diventare “un rifugio sicuro per criminali”.
La nuova normativa permette l’estradizione nella Cina popolare, a Taiwan e a Macao delle persone che si sono macchiate di delitti quali l’omicidio e lo stupro.
Le richieste di estradizione dovranno essere valutate caso per caso e l’ultima parola spetterà alla magistratura di Hong Kong.
Il pretesto è il delitto di una ragazza di 20 anni, assassinata a Taiwan dal suo fidanzato, di Hong Kong.
Taiwan ha chiesto l’estradizione e Hong Kong ha realizzato di non avere una norma che lo consenta.
Tuttavia per gli attivisti dei diritti umani, il doppio fine è abbastanza evidente.
La definizione di “criminale” si estenderà anche ai perseguitati politici del regime di Pechino?
Di sicuro, anche i cittadini di Hong Kong saranno maggiormente esposti alle decisioni della magistratura della Cina popolare, che non è un organo giudiziario indipendente, bensì un organo del Partito-Stato.
Ed anche Taiwan, che pure aveva sollevato il caso, ritiene che il problema non possa essere affrontato con una legge che espone al rischio di ingerenze di Pechino, anche ai danni di attivisti e perseguitati politici e religiosi.
Ad esempio, il libraio Lam Wing Kee, che vendeva anche testi critici del regime comunista cinese, era stato rapito nel 2015 e accusato dalla magistratura cinese di “apertura di una libreria illegale”.
Attualmente è protetto dalla legge (anche se, per sicurezza, ha preferito trasferirsi a Taiwan), con le nuove norme non si sente più sicuro: “Se non voglio andare, posso essere estradato. Non mi fido delle garanzie governative alla mia sicurezza”, ha dichiarato ieri.
Un gran numero di cinesi di Hong Kong la pensa come lui.
La nuova legge sull’estradizione ha suscitato la protesta di massa più grande dal 2014, con un picco di 250mila persone in piazza (secondo gli organizzatori erano 1 milione) la scorsa domenica. In un paio di circostanze, frange estreme dei cortei dei manifestanti si sono scontrate con la polizia.
Il collegio cattolico di San Francesco, dove aveva studiato la stessa Carrie Lam, ha raccolto 1300 firme in una petizione contro la riforma.
Prima della protesta di massa, 3000 avvocati avevano sfilato in silenzio, in protesta.
Salvarico Malleone
Commenti
La Pechino rossa che vuole reprimere Hong Kong — Nessun commento
HTML tags allowed in your comment: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>