C’era una volta la festa dell’unità, ma tanto tanto tempo fa
I compagni col fazzoletto rosso al collo consumavano metà delle loro ferie a preparare e servire ai tavolini in plastica delle feste dell’unità.
Col trascorrere degli anni il fazzoletto si è sbiadito ed ha mutato colore, la lista dei compagni sono si è esaurita e le nuove generazioni hanno scelto altre sigle e altre battaglie.
L’operaio rosso è pressoché scomparso ed oggi il pd riscuote i consensi ai Paioli a Roma e nel Quadrilatero della Moda a Milano, i nuovi quartieri del proletariato.
I nuovi compagni sono cresciuti con la scuola di Fausto Bertinotti, il rosso in cachemire, per cui si sono dotati di magliettine griffate e orologi da polso rolexati.
Ovvio che con tale foggia e con tale patrimonio sono stati costretti a scansare il volontariato estivo della brace ardente e dei fusti teutonici di birra alla spina. Mica possono insudiciarsi e affumicarsi per la gioia altrui.
Le miriadi di sigle e siglette nate sotto l’ombra della bandiera rossa si occupano di argomenti più da salotto che da fabbrica.
In sostanza le feste dell’unità sono scomparse come è naufragata ignobilmente la stessa Unità partorita dalla mente di Antonio Gramsci.
Addirittura la festa dell’unità a Reggio Emilia si chiamava Festareggio e qualcuno poteva essere portato a pensare che si trattasse di una festa per tutti i reggiani. Invece no.
Era il frutto dell’operazione di maquillage post caduta del muro di Berlino degli ex comunisti per cancellare le proprie radici e la propria storia divenuta scomoda.
Festareggio era un inganno: non era la festa di tutti i reggiani, ma una festa di un partito che non poteva più utilizzare la parola Unità perché il giornale che portava quel nome era morto da tempo e l’unità della sinistra che sperava di dominare il Paese si è impolverata nell’ultimo cassetto in fondo a destra.
Si chiamava alloraFestareggio, ci si appropriava di un tutto per coprire le difficoltà di una parte: può accadere solo nelle terre rosse dove il regime si è fatto via via cappa impossibile da decifrare.
Ma che Festareggio negli ultimi 20 annie la Festa dell’Unità prima fossero il cuore culturale di una città intera lo dimostra il fatto che fino all’anno scorso si teneva a ridosso del centro, nell’area del Campovolo.
Qui, proprio di fronte alle officine Reggiane sorgeva e sorge tutt’ora il Campovolo, troppo poco per definirlo aeroporto, ma molto più di un parco urbano, che si contenta di essere un punto di riferimento per i paracadutisti per hobby del fine settimana.
Non divenne mai un aeroporto perché per un mese all’anno il Campovolo diventava teatro della festa dei rossi e per l’occasione tutto si fermava e tutto doveva ruotare attorno ad essa. La viabilità cittadina veniva modificata, per la gioia di migliaia di automobilisti, che si ritrovavano una città spaccata in due da attraversare.
Anche i piani regolatori e lo sviluppo mancato di quell’area non sono mai stati fatti perché il partito che ha amministrato Reggio Emilia per 70 anni ha sempre considerato quel luogo come suo: intoccabile perché lì doveva esserci la Festa che rappresentava l’entrata economica principale della potente federazione di via Toschi.
L’anno scorso dal Campovolo ci si è trasferiti alle Fiere di Reggio, altro vuoto contenitore e quella fu la prima avvisaglia che qualche cosa stava cambiando.
Oggi i giornali piangono il fatto che quest’anno Festareggio non si farà (il buco della federazione ammonta a 2 milioni di euro) e ricordano di quando nel 1983 dal palco del Campovolo Enrico Berlinguer arringava oltre un milione di persone.
Poco dopo la Festa dell’Unità avrebbe toccato il suo apice con un concerto storico degli U2 il 20 settembre 1997.
A voler vedere, la metamorfosi era tutta lì: spettacoli sopra tutto, gratuiti, per quanto riguarda la politica sempre più autoreferenzialità, sempre più sinistra a guardarsi l’ombelico, sempre più passerelle e sempre meno contenuti.
Anche la ristorazione non poteva più dare il suo apporto: una volta alla festa dell’unità potevi trovare le specialità italiane: dal Piemonte (ristorante Le Langhe) alla Sardegna (Ristorante il Nuraghe) passando per il cacciucco alla livornese cucinato dalla sezione rossissima del pci toscano, al pesce del Ciao Mare che ricordava l’allegria adriatica. Insomma: anche per chi non votava a sinistra, andare alla Festa dell’Unità era un viaggetto tra i sapori del Bel Paese.
Tutto questo è il passato remoto. Sparite le idealità, sparite le attrattive, sparite le convenienze musicali e soprattutto spariti i voti con i quali il pci si era costruito il suo piccolo esercito, a Festareggio non restava nient’altro da fare che ammainare bandiera.
Allora c’era una fede da sostenere, una fede in una “Chiesa” e si esibivano rituali e liturgie.
Dietro gli stand, andando verso i parcheggi, si potevano vedere le file di camper e roulotte: erano i militanti che si prendevano le ferie tra agosto e settembre per lavorare come volontari.
Erano animati da ideali: diritti dei lavoratori, giustizia sociale.
Utopie, ma ideali, in ogni caso.
Oggi quegli ideali sono stati traditi dalle cause più discutibili e ossessive della sinistra: i diritti Lgbt e l’immigrazionismo, praticamente il diktat a rischio totalitarismo e l’apice dello sfruttamento umano nascosto dietro il buonismo di facciata.
Basti guardare gli ospiti dell’anno scorso per rendersi conto che l’orizzonte culturale era sceso ai minimi livelli: Melloni, Kyenge, Monica Cirinnà, Gianrico Carofiglio, più una passerella di modesti leader dem locali e nazionali. Il risultato è che l’appeal della gente era calato.
Coi vecchi comunisti morti e sepolti, quelli nuovi oggi che salgono sulle navi delle Ong per qualche foto e qualche intervista.
A presidiare le Feste dell’Unità sono rimasti solo i cattoprogressisti, che hanno preso il controllo di uno scatolone vuoto, privo di idealità.
Il vescovo di Bologna Zuppi è stato l’ospite incontrastato di una festa dell’Unità del bolognese, l’unico che facesse un po’ di richiamo mediatico.
Argomento? I cattolici in politica. Figurarsi…alla festa dell’Unità. Il prelato ha dialogato con tre esponenti politici: del Pd – ovviamente – di Forza Italia e dei 5 Stelle. Assente la Lega e Fratelli d’Italia. Il motivo?
“Francamente non abbiamo trovato esponenti molto cattolici tra le fila del Carroccio bolognese”, ha dichiarato la conduttrice dell’evento, poverina, non le hanno detto che la maggior parte dei cattolici oggi vota lì.
Il solito vizio radical chic di dare patenti. Prima lo facevano sulla democrazia, oggi danno anche patenti di cattolicità. E parlano di un argomento, quello dei cattolici in politica, che potrebbe aprire a una vastità di tematiche oppure chiudersi in un mare di banalità.
Hanno scelto la seconda strada: tabù i temi dell’eutanasia, dell’aborto, della vita, della difesa della famiglia naturale, dell’educazione gender, della rivoluzione arcobaleno, ci si è concentrati in un guazzabuglio di giustificazioni e ammonimenti del tipo: “Anche un non cattolico può essere un buon politico”.
“La verità è che nun c’avete più gnente da dì“, avrebbe chiosato il Marchese del Grillo.
Argomento tanto caro agli ex comunisti e ai cattocomunisti è quello stucchevole e arrugginito delle ong e delle decine di giovanotti alla ricerca dell’eldorado che non c’è.
Ancora non si sono accorti che gli italiani e gran parte degli europei han deciso di cambiare spartiti e orchestranti.
Anselmo Faidit
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