Sono gli autonomi e le piccole imprese a pagare più tasse
Nelle tante graduatorie europee il nostro Paese occupa in pianta stabile l’ultima o la penultima posizione.
Ci ritroviamo con una classe politica, sia quella della maggioranza che quella della minoranza, che quotidianamente trascorre parte del tempo in sterili e improduttive polemiche non rendendosi conto che per risalire la china e tornare ai ruoli e alle posizioni che ci competono, serve impegno e collaborazione.
Le imprese per tornare ad essere competitive a livello internazionale necessitano di una burocrazia snella e simile a quella degli altri paesi occidentali e di piccole agevolazioni.
Il nostro è un Paese manifatturiero che poggia maggiormente sulle piccole aziende e sugli autonomi il cui contributo fiscale ed economico è rilevantissimo.
In materia di imposte e tasse, nel 2018 costoro hanno versato al fisco 42,3 miliardi di euro (pari al 53% degli oltre 80 miliardi di imposte versate da tutto il sistema produttivo).
Per intenderci solo quelle attività con meno di 5,1 milioni di euro di fatturato che per legge sono sottoposte agli studi di settore che, dall’anno di imposta 2018, sono stati sostituiti dall’Isa (Indice sintetico di affidabilità).
Tutte le altre, prevalentemente medie e grandi imprese, invece, hanno corrisposto “solo” 37,9 miliardi (il 47% del totale).
In buona sostanza i piccoli hanno versato 4,4 miliardi di tasse in più rispetto a tutti gli. A denunciarlo è la CGIA.
L’apporto fiscale delle medie e grandi imprese è parecchio inferiore alle attese.
Tale risultato è ascrivibile sia al loro esiguo numero sia all’elevata possibilità che queste realtà produttive hanno di eludere il fisco.
Come ha segnalato recentemente il Fondo Monetario Internazionale, il mancato pagamento delle imposte da parte delle grandi multinazionali del web, ad esempio, sottrae ogni anno all’erario italiano circa 20 miliardi di euro.
Alla luce di questi risultati, la CGIA chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle piccole e delle micro, visto che la tassazione continua ad attestarsi su livelli insopportabili.
Il credito viene concesso con il contagocce e l’ammontare del debito commerciale della nostra Pubblica amministrazione nei confronti dei propri fornitori è di 57 miliardi di euro, di cui circa la metà riconducibile ai mancati pagamenti.
Un tema, quello dei mancati pagamenti della Pa, che purtroppo non è più al centro dell’attenzione da parte della pubblica opinione.
La nostra Pa non solo paga con un ritardo ingiustificato, che nel dicembre del 2017 ci è costato un deferimento alla Corte di Giustizia Europea, ma quando lo fa non è più tenuta a versare l’Iva al proprio fornitore.
Dopo l’introduzione dello split payment, infatti, le imprese che lavorano per il settore pubblico, oltre a sopportare tempi di pagamento lunghissimi, subiscono anche la mancata riscossione dell’imposta sul valore aggiunto che, pur rappresentando una partita di giro, consentiva alle imprese di avere maggiore liquidità per fronteggiare le spese correnti.
Questa situazione, associandosi alla contrazione degli impieghi bancari nei confronti delle imprese in atto in questi ultimi anni, ha peggiorato la tenuta finanziaria di moltissime piccole realtà aziendali.
Se oggi contiamo un numero molto ristretto di grandi imprese, la CGIA ricorda che fino alla prima metà degli anni ’80 il loro ruolo nell’economia nazionale era di primissimo piano.
A quel tempo, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica,razie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.).
A distanza di quasi 40 anni abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi settori.
E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato e di un adeguato supporto politico.
Salvarico Malleone
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