La nuova Commissione Europea ottiene il via libera
Dopo un processo di designazione a dir poco complicato, alla fine Ursula von der Leyen ha portato a casa il risultato più importante riuscendo persino a fare meglio del suo predecessore.
Con 461 voti favorevoli (38 in più di Jean-Claude Juncker), 151 contrari e 89 astensioni, l’ex ministro della Difesa tedesca ha ottenuto il tanto agognato via libera del Parlamento europeo alla sua Commissione, che potrà così entrare in carica il 1° dicembre.
Il voto palese ha messo von der Leyen al riparo dalla minaccia dei franchi tiratori che a luglio, quando gli eurodeputati furono chiamati a esprimersi su di lei come futura presidente della Commissione, la tennero col fiato sospeso fino all’ultimo minuto.
Quattro mesi fa se la cavò con soli 9 voti in più della maggioranza necessaria, oggi quei voti sono diventati molti di più.
Ma attenzione a farsi ingannare dai numeri. Il Parlamento europeo a geometrie politiche variabili frutto delle elezioni di maggio è più agguerrito che mai ed è pronto a esercitare il proprio peso istituzionale lungo tutto l’arco della legislatura.
La partita politica giocata negli ultimi mesi fa pendere l’ago della bilancia a favore degli europarlamentari, che per la prima volta nella storia hanno rispedito al mittente ben tre candidati commissari.
Due di questi per ragioni legate a conflitti d’interesse, ancor prima di ascoltarli in audizione.
Gli eurodeputati sono riusciti anche a convincere von der Leyen a rinominare il controverso portafoglio assegnato al greco Margaritis Schinas, che da «proteggere lo stile di vita europeo» è diventato «promuovere il nostro modo di vita europeo».
Sinistra e liberali in particolare avevano accusato la presidente eletta di voler strizzare l’occhio alla retorica sovranista utilizzando la parola “proteggere”, che sottintenderebbe la minaccia di una invasione migratoria.
Stesso processo si è verificato anche con il portafoglio della bulgara Mariya Gabriel, che da Innovazione e gioventù si è trasformato in Innovazione, ricerca, cultura, educazione e gioventù, facendo così riapparire i termini “cultura” e “ricerca” che tanto dibattito avevano scatenato fra gli eurodeputati e non solo.
Von der Leyen ha quindi deciso di fare un passo simbolico verso gli eurodeputati, che in cambio le hanno concesso una maggioranza solida a Strasburgo, seppur con qualche defezione fra i socialisti.
Divisioni interne si sono registrate anche nelle file di Conservatori e riformisti (ECR, European Conservatives and Reformists), Verdi e nel Movimento 5 Stelle, che nell’emiciclo siede fra i banchi dei non iscritti ed era stato decisivo nel luglio scorso per permettere l’elezione di von der Leyen.
La lotta ai cambiamenti climatici è il tema che von der Leyen ha deciso di mettere in cima alla propria agenda per i prossimi cinque anni. Già nei mesi scorsi aveva annunciato di voler presentare un “Green deal”, Patto verde europeo, entro i primi cento giorni del suo mandato.
Meglio partire da temi poco controversi per cercare di convincere chi è ancora scettico sulla sua capacità di leadership.
Ad accompagnare il Patto verde ci sarà anche un nuovo fondo per la transizione “equa” dei Paesi verso un’economia più sostenibile dal punto di vista ambientale.
Lo strumento avrà più un valore simbolico che un’effettiva capacità di spesa, visto che avrà a disposizione meno di 10 miliardi di euro e la Commissione vorrebbe estenderlo non solo alle regioni carbonifere ancora presenti nell’Est Europa, ma anche a tutti quei territori che possiedono industrie energivore o che fanno uso massiccio di energie fossili.
Le vere sfide per l’ex ministra tedesca, però, saranno altre.
La costruzione di un’Europa più sociale, la politica commerciale internazionale, la modifica delle stringenti regole del Patto di stabilità e crescita e la riforma del regolamento di Dublino sui richiedenti asilo rappresentano già ora un ostacolo quasi insormontabile per una Commissione che appare politicamente più debole rispetto a quella di Juncker. Con i Paesi UEsempre più divisi fra loro e un Parlamento europeo deciso a rendere la vita dura al prossimo esecutivo comunitario, sarà difficile far passare proposte di riforme troppo radicali.
Alla già lunga lista di questioni precedentemente elencate se ne aggiunge poi un’ultima ancora più spinosa: la Brexit.
Oltre a essere la Commissione europea con il più alto numero di donne della storia, ben 12 su 27 (mancando di poco l’obiettivo della parità di genere assoluta), quello guidato da von der Leyen dovrebbe essere anche il primo esecutivo a terminare il suo mandato con un numero di Stati membri inferiore rispetto a quando è entrato in carica.
Ulteriori rinvii e colpi di scena permettendo, il 31 gennaio 2020 dovrebbe essere l’ultima scadenza per l’uscita del Regno Unito dall’Unione.
La presidente eletta ha deciso di abbozzare un approccio più muscolare verso Londra, che avrebbe dovuto nominare un candidato commissario da lasciare in carica due mesi.
Davanti alla refrattarietà dei britannici, la Commissione ha quindi deciso di avviare un’inedita procedura d’infrazione nei loro confronti, e non è ancora ben chiaro se questa avrà qualche tipo di conseguenza.
Ma al di là del mero aspetto procedurale, restano i complicati risvolti politici derivanti dal fatto che l’esecutivo dovrà ricostruire la relazione dell’UE con il Regno Unito attraverso la mediazione del commissario al Commercio, l’irlandese Phil Hogan, che lavorerà insieme al capo negoziatore sulla Brexit, Michel Barnier.
Una gestione sbagliata del dossier potrebbe avere conseguenze nefaste per l’economia su entrambe le sponde della Manica affossando anche la reputazione di una Commissione europea che, nonostante i numeri raccolti ieri a Strasburgo, assomiglia già più a un’anatra zoppa che a una solida certezza per il futuro dell’Unione.
Arnaud Daniels
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