Secondo il Rapporto Censis la parola del 2019 è: incertezza
Se nel 2017 fu “rancore” e nel 2018 è stata “cattiveria”, la parola che pervade il Rapporto Censis 2019 è “incertezza”.
Giunto alla sua 53ma edizione, il Rapporto Censis (Centro Studi Investimenti Sociali) che interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase che sta attraversando, è stato presentato il 6 dicembre 2019 a Roma presso il CNEL, come è consuetudine.
“Senza un’aspirazione in atto, l’incertezza è lo stato d’animo dominante oggi tra gli italiani”, ha affermato Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis, che ne individua la causa nello “stravolgimento sociale, conseguenza a sua volta della fine della corsa al benessere e della rottura dell’ascensore sociale”.
L’incertezza, pertanto, è lo stato d’animo con cui il 69% degli italiani guarda al futuro (il 17% è addirittura pessimista e solo il 14% riesce a progettare e immaginare il domani con un po’ di sano ottimismo). Il 65% degli italiani è a tal punto incerto che sono “crescenti le pulsioni antidemocratiche”: si passa dal desiderio di “un uomo forte al potere” (48%) alla convinzione che nell’ultimo anno siano aumentati gli episodi di intolleranza e razzismo verso gli immigrati (quasi il 70%).
Per il 58% è aumentato anche l’antisemitismo e, sempre secondo il rapporto, l’aumento dell’occupazione nel 2018 e nei primi mesi del 2019 è un “bluff” che non produce reddito e crescita.
Mentre oltre la metà degli italiani controlla lo smartphone come primo gesto al mattino o l’ultima attività della sera prima di andare a dormire.
Si legge nel Rapporto Censis 2019:
“Lo scenario nel quale ci muoviamo è affollato da non decisioni: sul contenimento della pressione migratoria, sulla digitalizzazione, sulla politica tributaria, sulle concessioni e sui lavori per le grandi infrastrutture di rete, sui servizi idrici o per i rifiuti, sulla collocazione delle scorie nucleari, solo per richiamarne alcune. I limiti della politica attuale sono nella rassegnazione a non decidere. Non per aver scelto, ma per non averlo fatto, la politica ha fallito e ha smarrito se stessa. Vedendo cadere al suo punto più basso l’interesse a fare politica, a essere presenti e partecipi alla responsabilità collettiva, l’affidabilità delle sue parole, gli italiani non si sentono orfani: più semplicemente si sono disconnessi dalla politica, limitandosi al più ad osservarla, come in un reality”.
Il lavoro continua ad essere il vero, grande, problema degli italiani: ne è preoccupato il 44% (più del doppio della media europea), più degli immigrati (22%) e della crisi climatica.
Rispetto al 2017, gli occupati aumentano, ma crescono solo quelli a tempo parziale (1,2 milioni), tanto che tra il 2007 e il 2018 il part-time è aumentato del 38%.
Sono calate nello stesso periodo le ore complessive di lavoro e anche le retribuzioni (del 3,8%).
Ci cono quasi 3 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 9 euro all’ora, specie tra giovani e operai.
I giovani sono sempre di meno eppure non trovano lavoro.
Dal 2015 si contano 436.066 cittadini in meno.
Calano le nascite, sia tra gli italiani che tra gli stranieri, e aumentano gli espatri, con numeri impressionanti: più 400.000 cittadini tra i 18 e i 39 hanno lasciato l’Italia in un decennio.
Ha fatto notare il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita:
“Alla crisi economica c’è stata una risposta individuale, lo sforzo degli italiani nel mettere in campo forme di reazione come il ‘viver bene’ individuale, ma non basta. Serve anche il ‘viver bene’ collettivo. Non bastano dunque i singoli, ma serve una risposta collettiva. Negli ultimi dieci anni la politica non è stata in grado di prendere decisioni tali da produrre effetti concreti”.
Eppure, per il 47% degli italiani “ha ancora chance di raccogliere il giusto consenso il politico che pensa al futuro e alle giovani generazioni, piuttosto che esclusivamente al consenso elettorale (3%)”.
Per il Censis una forma di “piastra di ancoraggio” per limitare il trascinamento verso il basso è nel consolidamento strutturale in alcune aree geografiche vaste del nostro Paese: dal nuovo triangolo industriale tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna alla fascia dorsale lungo l’Adriatico.
“Con un tasso di crescita del prodotto interno e dei consumi paragonabile alle migliori regioni europee, in zone puntuali ma significative, la riaffermazione della base geografica dello sviluppo, anche quando è a scapito di altre parti del Paese, segnala che l’appartenenza territoriale ridona vigore alla crescita”.
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