Dietro al boom dei ristoranti la longa mano della malavita
Il glossario che abbraccia il cibo negli ultimi anni si è evoluto, ampliato, trasformato, per assecondare un settore che, grazie a innumerevoli programmi televisivi, ha vissuto e vive un vero e proprio boom, con 392.314 attività di ristorazione registrate presso le Camere di Commercio.
Si tratta di un trend che coinvolge l’Italia intera: da sempre a noi italiani piace mangiare, ma da un cinque, sei anni a questa parte ci piace anche di più, tanto da arrivare a spendere, nel 2018, la cifra record di 85 miliardi di euro per consumi fuori casa.
Paradossalmente, col senno di poi paiono profetiche le parole del 2012 di Silvio Berlusconi: ma quale crisi, i ristoranti sono pieni, siamo un popolo gaudente, qui da noi si sta benissimo.
Esagerazioni e battute a parte, la città che più ha risentito di quest’esplosione è stata Milano, in particolare nel periodo post-Expo: il settore cresce del 6% ogni anno (nel 2017 si contavano 7.333 bar, gelaterie e ristoranti, contro i 6.911 dell’anno precedente) toccando il 40% in più rispetto al 2011, secondo la Camera di Commercio.
Tali numeri non vanno letti solo positivamente, in gran parte è effetto delle norme sulle liberalizzazioni che hanno aperto la porta a tutti creando anche diverse storture. Se è vero che i prezzi si sono abbassati, la deregulation del settore ha portato alla rimozione di barriere che garantivano sulla qualità del cibo.
Il panorama attuale è composto da un’offerta pressoché illimitata, che porta con sé il rischio tangibile di incappare in ristoranti e negozi che spesso non sono all’altezza.
Non sorprende che, stando all’ultima indagine sulla ristorazione in Italia di Ristoratore Top 2019, presentata al primo Forum della ristorazione tenutosi al Palacongressi di Rimini, il 2018 si aggiudichi il primato negativo peggiore degli ultimi 10 anni: -12.444 è il saldo tra locali aperti e chiusi, il che significa che ogni giorno 34 attività di ristorazione abbassano definitivamente il bandone.
Il tasso di natalità delle imprese di ristorazione, pari al 4% è in decelerazione rispetto al 2017 (4,2%), e stride con l’aumento della spesa per i consumi fuori casa degli italiani.
Parrebbe che la ristorazione fatichi a interpretare e soddisfare i desideri del cliente, se si pensa che delle 13.629 insegne che hanno avviato l’attività sul territorio nazionale, oltre 26mila hanno alzato bandiera bianca.
Roma batte Milano con 922 serrande abbassate (era andata peggio nel 2017, con lo stop di 941 insegne), contro le 477 attività cessate nel capoluogo lombardo, che però al contempo detta una triste regola non scritta: pochi imprenditori riescono a tenere in piedi il proprio locale a cinque anni dalla nascita, e parecchi soccombono già al terzo anno di vita.
La legge della giungla vuole che i più forti riescano infine a sopravvivere, però alla base resta la domanda: com’è possibile che ci siano così tante aperture e com’è possibile che per almeno un paio d’anni i nuovi arrivati riescano comunque a navigare a vista?
Le ragioni principali per cui aprono tanti esercizi sono due.
La prima ha a che fare con la criminalità organizzata: secondo Panorama, da tre anni, a Milano, le chiusure di esercizi commerciali ordinate dalla prefettura sono all’ordine del giorno.
Undici casi nel 2017, quattordici nel 2018, nove al 15 marzo 2019, con almeno una cinquantina di ordinamenti sul tavolo del Prefetto in attesa di firma.
Il Comune riporta 9.044 bar e ristoranti attivi nel 2019, escludendo dal novero quasi 3.200 fra ristoranti aziendali e locali ospitati in teatri e cinema: nel 2018 sono stati inaugurati 336 esercizi, praticamente uno al giorno, mentre altri 656 caffè e ristoranti sono passati di mano, arrivando a quasi due compravendite ogni 24 ore.
«In quattro anni bar e ristoranti sono aumentati del 40%», spiega Michele Riccardi, Senior Researcher di Transcrime, il centro di criminologia dell’Università Cattolica, «e ciò conferma che Milano, proprio per la vivacità della sua economia, è inevitabilmente deputata al riciclaggio mafioso».
Il rapporto agromafie della Coldiretti parla chiaro: i locali della ristorazione sotto il controllo della malavita sul territorio nazionale sarebbero addirittura 5mila, per un giro d’affari di circa 24,5 miliardi di euro: i soldi sporchi non diventano soltanto quote di ristoranti sparsi nei centri nevralgici d’Italia e utilizzati come lavatrici per riciclare il denaro, ma rappresentano pure uno scatto evolutivo, la proiezione verso nuovi affari e nuovi contatti.
«I ristoranti alla moda servono per creare quella rete relazionale che arricchisce il patrimonio di un’associazione criminale con personaggi famosi, sportivi, nomi da spendere», racconta Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano, al Corriere della Sera.
Per gli inquirenti, tra i tantissimi imprenditori onesti, si celano personaggi legati a vario titolo con il crimine organizzato, che trasformano il frutto delle attività illegali in casse di riciclaggio e in vetrine di un rinnovato potere di relazione, l’antistato mafioso che si è fatto impresa.
Semplificando, la ristorazione milanese vede tre categorie di protagonisti: i ristoratori veri, che vivono con gli incassi giornalieri, i locali aperti dai fondi di investimento e i ristoranti aperti per motivi poco puliti (vedi alla voce: riciclaggio).
Chi ci rimette sono i veri ristoratori, dato che i fondi d’investimento e la criminalità organizzata, possono permettersi di andare in pareggio e perfino di annoverare delle perdite.
I bilanci d’altronde non mentono: molti ristoranti prestigiosi sono in perdita, e in una economia di mercato dovrebbero essere già falliti di un pezzo. Vengono tenuti in vita artificialmente, perché uno dei capisaldi del private equity consiste nel presentarsi al meglio, usando magari il nome di uno chef famoso e nel vendere al momento giusto.
È il caso degli ‘stellati’, dove spesso i coperti non sono sufficienti a giustificare i costi, i clienti sono più che altro stranieri e il ristorante si ritrova a vivere di altri indotti, come quello pubblicitario.
La seconda ragione menzionata attiene allo stato del giornalismo e della critica gastronomica.
La maggior parte dei ristoranti milanesi si avvale dell’ausilio di uffici stampa che curano la loro comunicazione online e con la stampa.
Tradotto per i non addetti ai lavori, uno dei compiti principali di un ufficio stampa consiste nell’assicurare una serie di articoli e segnalazioni su riviste e quotidiani che pubblicizzino il locale in oggetto: per ottenerli, l’ufficio stampa s’avvale di una pletora di contatti che puntualmente vengono invitati a pranzi e cene stampa in cui testano la cucina.
Ed è qui che casca l’asino: durante un pranzo o una cena offerta, organizzata appositamente per fare bella figura, è davvero possibile riuscire a farsi un’idea obiettiva e imparziale?
Per non rischiare di giocarsi il contatto con l’ufficio stampa, che spesso elimina dalla lista dei contatti quanti sono silenti, il giornalista è moralmente obbligato a scrivere qualcosa di positivo, anche solo una segnalazione, nonostante i piatti o la cantina non l’abbiano convinto.
Un lettore non scafato interpreta la segnalazione come una raccomandazione ed è portato a provare il tal locale, che non di rado si rivela un posto dove non metterà mai più piede.
Non è un caso se il 90% delle recensioni riporti la descrizione delle portate, dell’ambiente, dei prezzi, ma nemmeno una nota sul rapporto qualità/prezzo?
Chiaro che no, perché non pagando è alquanto improbabile avere una simile percezione, e in più sottolineare che un ristorante è tanto fumo e niente arrosto (tanto per rimanere in tema) metterebbe a repentaglio le relazioni con l’ufficio stampa, che interromperebbe la lunga serie di inviti.
Così, uno degli aspetti fondamentali che un lettore vuole e ha il diritto di conoscere viene a mancare: in quel ristorante si mangia bene spendendo il giusto? O siamo di fronte a un overpricing ingiustificato?
La stragrande maggioranza dei giornalisti food, oggi, si muove solo ed esclusivamente attraverso gli uffici stampa, rimanendo così imbrigliata in una serie di obblighi, doveri e favori che offuscano lo stato reale delle cose, ossia il cibo.
Certo, non è colpa dei giornalisti e non è colpa degli uffici stampa, bensì del sistema: in un mondo ideale, le redazioni dovrebbero affidare un budget mensile a ciascun giornalista, chiedendogli di fornire una panoramica spassionata ed equanime dei locali scovati e testati, in modo da non alimentare la passività e il clientelismo in cui versa la professione.
I soldi però non ci sono: l’editoria, si sa, è parecchio più in crisi della ristorazione, e il circolo vizioso è destinato a non essere spezzato, fatte salve alcune eccezioni.
Da un lato si riconferma il successo di TheFork e TripAdvisor, che grazie ai giudizi spassionati espressi dagli utenti continuano a godere di credibilità.
Locali che si devono difendere dai colpi bassi di un’élite tuttora ancorata in maniera grottesca ai propri privilegi.
Vista, prendendo le dovute distanze, quella del food ora come ora pare una bolla gonfiata a dismisura, pronta a scoppiare da un momento all’altro: la coperta è troppo corta per coprire chiunque ci si voglia accoccolare – semplici ristoratori, investitori, malavita, uffici stampa, giornalisti, food blogger, clienti – e predire cosa accadrà in futuro risulta arduo.
Vero è che un’informazione più puntuale (da parte degli uffici stampa, nell’indagare e approfondire chi si nasconde dietro ai ristoranti che seguono), una maggiore correttezza (da parte delle testate giornalistiche: un pranzo o una cena gratis non equivalgono forse a un pubbliredazionale che andrebbe specificato?) e uno sfoltimento complessivo (di ristoranti, ma pure di influencer, di commentatori improvvisati e di articoli clickbaiting) aiuterebbero non poco a ritrovare l’equilibrio perduto.
Fare meno fare meglio, potrebbe essere la ricetta migliore per sopravvivere e distinguersi in un’epoca dominata dall’iper-produttività e dalla sovraofferta.
Claudia Treves
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