Il coronavirus lo dobbiamo sconfiggere con realismo
Qui al Cesp (Centro studi Sanità Pubblica dell’Università di Milano Bicocca) non siamo virologi, microbiologi ed esperti di epidemie infettive. Ci occupiamo però di epidemiologia anche nei suoi aspetti sociali, ovvero lo studio della diffusione delle malattie in relazione allo stato socioeconomico e alla cultura della popolazione. Di fronte alla drammatica situazione prodotta dalla diffusione della Covid-19 nel nostro Paese, ci facciamo e facciamo domande che non vogliono contestare chi ne sa e fa più di noi, ma vogliono contribuire, possibilmente chiarendo e comunque procedendo insieme, senza rinunciare alla logica.
Perché in Italia l’epidemia da coronavirus è esplosa in modo così clamoroso?
Siamo dopo la Cina, in cui l’epidemia è nata, il paese con il più alto numero di casi e di morti. Trattare ciò, un fenomeno che sta bloccando la vita civile, come un fatto casuale appare rinuncia alla ragione. Certo è possibile – anche la categoria della possibilità è propria della ragione – ma significativi dubbi insorgono, seppure senza riuscire a scuotere il giudizio che anima la risposta politica e sanitaria all’epidemia.
I focolai dell’infezione si sono manifestati più intensi nelle regioni più produttive del paese, Veneto, Emilia Romagna e soprattutto Lombardia, che è presumibile abbiano maggiori rapporti di scambio con la Cina, nota come “fabbrica” del mondo, e con il mondo in generale.
Tuttavia non si può pensare che Germania, Francia e Regno Unito abbiano con la Cina meno rapporti commerciali e industriali di noi. Inoltre loro, diversamente da noi, non hanno chiuso le frontiere agli aerei in arrivo dalla Cina, così che attraverso di loro molti anonimi sono rientrati in Italia.
Siccome da parte degli esperti ormai si riconosce che il “va e vieni” dalla Cina abbia portato l’infezione in Europa molto prima di quando si è manifestata, o meglio riconosciuta, e addirittura si parla di un paziente zero tedesco, i casi sono due: o noi siamo più predisposti all’infezione, oppure, come si accenna a bassa voce, il virus è mutato diventando più cattivo e antitaliano.
Entrambe le ipotesi, soprattutto la seconda, non possono essere lanciate e lasciate a livello di opinione. Per questo abbiamo dei ricercatori. Però, non sono queste le ipotesi che vanno per la maggiore.
Quella che va di più e che appare incontrovertibile, senza produrre né critica, né autocritica, è che la malattia da noi è più diffusa perché l’abbiamo cercata di più, abbiamo fatto più tamponi. A partire dal primo caso abbiamo “tamponato” i contatti riferiti di volta in volta, a prescindere che fossero sintomatici o meno; molti positivi sono stati per precauzione ricoverati anche se solo per la quarantena. Adesso vengono tamponati solo i sintomatici, ma tra gli operatori sanitari ancora anche i contatti.
In Regno Unito, Francia e Germania, per quanto non chiarissima, la tendenza è a “tamponare” i sintomatici che provengono da zone infette, come la Cina e l’Italia, oppure i malati gravi ospedalizzati. Tutti gli altri vengono considerati affetti da influenza normale e consigliati di curarsi a casa. Il nostro sforzo, che in diversi (non molti) indicano come modello per l’Europa, se non il mondo, ha certamente gettato un allarme internazionale sull’epidemia di Covid-19 e ha contribuito in parte, ma non molto, a contenerne la diffusione.
Infatti, se il virus è presente da tempo, quanti sono gli infetti e infettanti non diagnosticati? Probabilmente assai di più di quelli riconosciuti. Inoltre essendo il tampone un intervento che segue la malattia, che non è fatto a tutti e nemmeno a un campione rappresentativo di popolazione ammalata e sana, è una misura assai approssimativa sia da un punto di vista preventivo, che di stima della letalità e della morbosità, come succede del resto per l’influenza.
Per conoscere la percentuale dei morti e dei malati, bisogna conoscere con precisione il numero degli infettati. Adesso, 10 marzo, quello che sappiamo con precisione è che sono stati effettuati circa 60.000 tamponi e circa 10.000 persone sono risultate positive.
Sappiamo che i morti con Covid-19, ma non necessariamente da Covid-19, in genere anziani con altre patologie, oltre che un’età avanzata, sono 631 in quindici giorni, con una mortalità generale, per tutte le cause, in tutta l’Italia di 1.772 persone al giorno, oltre 26.000 in quindici giorni.
L’epidemia è tanto grave da giustificare provvedimenti così restrittivi della vita civile – si parla addirittura di chiudere tutto, oltre che le scuole, uffici e fabbriche?
Per quanto detto sopra, della gravità relativa dell’epidemia sapremo con chiarezza alla fine, anche se sono indubbiamente questioni molto serie i morti e il sovraffollamento degli ospedali e soprattutto delle terapie intensive di ammalati anziani, ma non solo.
Poiché non ci sono vaccini e farmaci efficaci, si parla di “contenimento” della malattia.
Con contenimento si intendono gli interventi tesi a prevenire, limitare, dilazionare e mitigare la diffusione del contagio, in modo tale da avere tempo per approntare il sistema sanitario con mezzi e personale adeguati per farvi fronte; per avere anche tempo di sviluppare le necessarie ricerche per la prevenzione (vaccini) e cura (farmaci).
Non tutti gli interventi imposti da Governo e Regioni – come è giusto, per la responsabilità che hanno – appaiono congrui: come già accennato, il blocco dei voli diretti da e per la Cina e non di quelli indiretti attraverso l’Europa; la chiusura di bar e ristoranti alla sera e non a mezzogiorno; la chiusura di un’intera regione e province sede di focolaio, senza fermare treni e aerei; il divieto di spostamenti dalla propria residenza valicabile con autocertificazione; la proibizione delle messe senza chiusura di centri commerciali e altri luoghi popolarmente frequentati.
Anche se si può comprendere la posizione non facile dei nostri responsabili politici e sanitari, viene da pensare a un atteggiamento draconiano “timido”, che alla fine sembra più di facciata che di sostanza. Cosa fatta, capo ha.
Speriamo che la conclamata radicalità degli interventi insieme alle preoccupanti notizie sul possibile collasso degli ospedali possano indurre i cittadini ad assumere atteggiamenti e comportamenti solidali e collaborativi nella lotta all’epidemia.
È fondamentale che: le persone positive al coronavirus, in particolare se con sintomi lievi, rispettino la quarantena a casa; gli anziani, oltre i 65 anni, soprattutto se portatori di patologia cronica, stiano in casa o in luoghi protetti dall’afflusso degli estranei; tutti evitino trasferimenti e assembramenti non necessari per proteggere se stessi ed evitare di portare il virus in casa a persone conviventi in condizioni di fragilità.
È ovvio come non sia semplice convincere sessanta milioni di italiani ad agire in modalità mai praticate prima. Possono essere necessari provvedimenti molto impopolari e anche impositivi, ma sempre bisogna essere attenti a che questi non siano contraddittori e nella sostanza inutili, perché la battaglia sarà ancora lunga sul piano sanitario e soprattutto su quello dell’economia e del lavoro.
Appunto, come andrà a finire?
Per l’epidemia si parla di due o tre mesi, per il resto, purtroppo avremo grandi difficoltà.
Risulta evidente a tutti che negozi, agenzie, piccole aziende chiudono a causa della mancanza di clienti e ordini. Come accennato sopra, da parte delle autorità si sente addirittura minacciare la chiusura delle fabbriche, per impedire i contagi. I posti di lavoro, in genere, non sono degli assembramenti e sono frequentati sempre dalle stesse persone, che se stanno alle norme di cui sopra non saranno o saranno poco contagiate e contageranno.
Il nostro paese è economicamente debole. Causa i timori di un indebolimento maggiore la borsa di Milano ha perso in due giorni 60 miliardi di capitalizzazione, pressappoco tre volte l’intero bilancio della sanità lombarda.
Ripartire non sarà agevole. Speriamo di essere sostenuti dall’Europa, ma non possiamo sperare in essa come il buon samaritano.
La crisi economica produce anch’essa malattie e morti perché riduce le risorse disponibili per le cure, l’organizzazione sanitaria, la protezione sociale della vecchiaia e della disabilità in genere.
La malattia è un aspetto costantemente presente nella vita e sebbene non dobbiamo augurarcela non possiamo rinunciare a vivere e lavorare per non ammalare. Non rinunciano molti operatori sanitari adesso, tant’è che compaiono striscioni dedicati a medici e infermieri come “i nostri eroi”.
Con meno enfasi, ma altrettanta decisione, dobbiamo persuaderci che combattere, cioè procrastinare la malattia – ogni malattia, perché prima o poi ci ammaliamo e moriamo – significa affrontarla con intelligenza e realismo, rischiando quello che è necessario.
Il coronavirus ci avverte che la vita non è un luogo sicuro, ma pieno di pericoli a cui nemmeno si pensa.
Giancarlo Cesana Professore di Igiene e Sanità Pubblica
Lorenzo Mantovani Professore di Igiene e Sanità Pubblica Direttore Centro Studi Sanità Pubblica (CESP) Università di Milano Bicocca
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