In Cina silenzio sui morti e scontri per il dopo coronavirus
In Italia piace sempre il modello cinese per la lotta al coronavirus?
Sarà bene prepararsi al dopo-epidemia, allora, perché alla riapertura delle città in quarantena, si stanno scatenando scontri sociali.
Benché in Cina viga una strettissima censura su ciò che avviene al suo interno (mentre i dati su contagi e numero dei morti siano sempre più dubbie), ciò che trapela è già molto grave.
Il 27 marzo, sul ponte del fiume Yangtze che collega la contea di Huangmei, nella provincia dello Hubei (ex zona rossa) e la città di Jiujiang, nella vicina provincia dello Jiangxi, sono scoppiati scontri fra cittadini e poliziotti, poi anche fra le polizie delle due province, con numerosi feriti e molti danni.
La causa della protesta è semplice: benché la zona rossa sia stata di nuovo aperta il 25 marzo (salvo Wuhan, che resterà chiusa fino all’8 aprile), i cinesi al di fuori dello Hubei non vogliono più avere a che fare con chi abita nella sfortunata provincia.
Sul ponte dello Jiangxi, i cittadini dello Hubei che si recavano al lavoro nella città della vicina provincia sono stati bloccati dalla polizia e dai manifestanti.
Hanno allora organizzato una marcia di protesta, fianco a fianco con i poliziotti locali, e si sono scontrati con la polizia locale dell’altra provincia.
I manifestanti hanno rovesciato alcune auto della polizia “nemica” e lo scontro è degenerato al punto che gli agenti delle due province sono arrivati alle mani anche fra loro.
Per gettare acqua sul fuoco è intervenuto il locale segretario del Partito Comunista della contea di Huangmei, invitando alla calma e sostenendo che si fosse già trovata una soluzione politica.
Come riferiscono fonti dell’agenzia missionaria Asia News in molte province, ai residenti dello Hubei non è permesso di entrare, né di vivere nell’appartamento che hanno legalmente affittato, né di lavorare.
Diversi fra loro hanno ormai problemi nella ricerca del lavoro.
Dentro la zona rossa, in compenso, si fa la fame.
Lo si deduce dalle proteste, rivolte anche contro la vice-premier in visita a Wuhan all’inizio di marzo, contestata apertamente e di fronte alle telecamere da cittadini affamati e indignati.
Lo si deduce dalle manifestazioni del 14 marzo, quando ancora tutto lo Hubei era in isolamento: un migliaio di cittadini di Yingcheng, città non lontana da Wuhan, erano scesi in piazza, violando le misure restrittive e sfidando la polizia. Manifestavano contro il caro-prezzi.
Questo perché, da quando è scattata la quarantena, i cittadini sono obbligati a comprare cibo solo dai comitati di quartiere. E lamentano prezzi troppo alti e qualità troppo scadente.
Sono frammenti di una realtà sociale esplosiva che le autorità stanno cercando di nascondere.
Così come è probabile che stia coprendo il reale numero di vittime del coronavirus.
È effettivamente difficile capire come mai in Cina (1 miliardo e mezzo di abitanti, tre mesi di epidemia) vi siano stati 3298 morti, mentre in Italia (60 milioni di abitanti e un mese e mezzo di epidemia) i morti siano già oltre 13mila.
Un aiuto arriva dalle foto (illegali) trapelate nei giorni scorsi a Wuhan: file interminabili di uomini e donne che vanno a ritirare le ceneri dei loro parenti morti nell’epidemia.
Secondo i calcoli di qualche ardito giornalista che sfida la censura, i morti potrebbero essere stati anche sopra i 40mila nella sola Wuhan.
Si tratta di una stima basata sul ritmo di lavoro dei forni crematori e sul numero di urne consegnate dalla sala funeraria del quartiere Wuchang: 6500 in quindici giorni.
Ma è sempre molto rischioso, per i giornalisti cinesi, diffondere queste notizie: Li Zehua, freelance ed ex giornalista della televisione di Stato, è stato arrestato un mese fa, subito dopo un servizio nella sala funeraria del quartiere Qingshan.
Altri due giornalisti che avevano redatto servizi a Wuhan, Fang Bin e Chen Qiushi, sono “scomparsi”.
Salvarico Malleone
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