Servizio a domicilio e delivery, quale la differenza?
Con la ripartenza delle attività si stanno imponendo nuove abitudini, compresa quella della ristorazione.
Si sente parlare sempre più di delivery, vediamo che cos’è.
Con il termine “Delivery” si intende il servizio svolto tramite piattaforme online che, per conto dei ristoranti, con manodopera terza, consegnano a casa un pasto.
In cosa, dunque, agli occhi del fruitore, si differenzierebbe il “servizio a domicilio” inteso come azione di recapitare un pasto a casa di un cliente per tramite di un fattorino?
In molto, non solo sul piano pratico, ma, soprattutto, sul piano sociale, ancor più oggi, nella fase in cui, causa pandemia Covid19, la ristorazione è da ripensare, affinché sopravviva, affinché migliori.
Il fenomeno del cosiddetto Food Delivery non è recente, ma, anzi, è proprio l’evoluzione del servizio a domicilio.
Tutti, chi più chi meno, già a partire dagli anni ’90, abbiamo acquistato una pizza telefonando in pizzeria aspettando l’arrivo del desiderato cartone direttamente a casa.
Questa consegna era fatta a cura del pizzaiolo, grazie a giovani motorizzati, perlopiù collaboratori a gettone del gestore, dunque, in esclusiva.
Negli ultimi anni, prendendo spunto dal Pony express, pensato per recapitare documenti, velocemente, da un capo all’altro di una città, si sono sviluppati servizi di società terze rispetto alla proprietà degli esercizi pubblici.
Servizi definitivamente esplosi grazie alla tecnologia, che permette di gestire domanda e offerta su larga scala.
Sugli aspetti deleteri di questa modalità c’è vasta letteratura: su tutti, la preoccupazione per la poca sicurezza dei riders e le mancate tutele, sorvolando sul compenso ancora troppo basso.
Di ciò sarà necessario e non più rinviabile parlare, alla fine di questa fase che stiamo vivendo, perché il servizio di delivery ha assunto una fisionomia diversa, per il momento non criticabile, visto che durante la Fase 1 di chiusura delle città è stato utile a molti cittadini e, pur nel paradosso, utile agli stessi lavoratori che hanno potuto continuare a ricavare un compenso forse anche più frequentemente di prima.
Non più alto, perché, tra l’altro chi ha veramente guadagnato dall’impennata del servizio è chi gestisce la piattaforma, con medie di ricavi del 35%.
Proprio da qui, però, parte un ragionamento semplice che molti ristoratori stanno facendo, certamente nelle grandi città, dove i numeri hanno consentito la nascita delle piattaforme, ma, ancor più, dove queste non forniscono il servizio.
Infatti, specialmente chi si è affacciato per la prima volta e per necessità al delivery, ha pensato che la percentuale di margine delle piattaforme fosse eccessiva e, sebbene, nessuno di costoro, in questa fase, abbia pensato di guadagnare dalla preparazione dei pasti a domicilio, ma, soprattutto, di tenere a galla la propria impresa nell’attesa di ritornare a fatturati sufficienti, certamente ha preferito immaginare una modalità nuova, anzi vecchia, portare personalmente il pasto a casa del cliente di persona. Una rivoluzione.
Ecco il cambiamento, molto positivo, perché non è una questione di margine, non è comunque a questo che il ristoratore punta trasformando una parte della propria attività per tenere i fuochi accessi.
L’obiettivo che si consegue è un altro ed è importante, perché il ristoratore o anche un suo collaboratore, riconosciuto, comunque, dal cliente come parte dello staff, si reca a casa in prima persona, senza mediazioni.
Un’azione di relazione pubblica potente, un atteggiamento empatico.
A chi, ristoratore, si chiedeva se, nonostante le difficoltà, i costi, la fatica, fosse una buona idea, si può solo rispondere che non è solo buona, ma è un gesto altamente simbolico che darà frutti.
Il servizio a domicilio, così, diventa un’operazione di comunicazione efficace sia per i già clienti, sia per nuovi potenziali clienti che, una volta riaperto il ristorante, potranno frequentarlo per proseguire la bella esperienza vissuta in queste settimane.
Piero Vernigo
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