Servono provvedimenti urgenti per ridurre la povertà
L’Italia è quartultima nell’Unione europea per occupati a rischio povertà.
Sono il 12,2%, negli altri Paesi sono in media il 9,5%.
Solo Spagna, Lussemburgo e Romania hanno dati peggiori di quelli italiani.
Come si legge nel “Rapporto Sdgs 2020 dell’Istat – Informazioni statistiche per l’agenda 2030 in Italia” il lavoro “povero” si può legare – lo dicono i dati – alla precarietà dei contratti: nel 2018 (sono gli ultimi dati disponibili) il 22,8% di chi ha un contratto a tempo determinato è a rischio di povertà, contro l’8,6% di chi ha un contratto a tempo indeterminato.
Ma influiscono anche una minore quantità di ore lavorate: è a rischio di povertà il 19,5% di chi ha un lavoro part-time contro il 10,9% di chi ha un contratto full time; a un basso titolo di studio: è a rischio di povertà il 19,6% degli occupati con al più il diploma di scuola secondaria di primo grado contro il 6% di chi ha un titolo terziario; all’essere cittadini stranieri: è a rischio di povertà il 30,4% dei cittadini stranieri contro il 10% degli italiani.
Per avere dati generali sul rischio povertà, invece, bisogna andare all’indagine “Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” dell’Istat che si basa sugli ultimi dati disponibili, quelli del 2017.
In Italia, il Mezzogiorno rimane l’area con la percentuale più alta di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (45%, seppure stabile rispetto all’anno precedente). Tuttavia si osserva un incremento del rischio di povertà da 33,1% nel 2017 a 34,4% nel 2018.
La Sicilia, come si può vedere nella mappa interattiva qui sopra, è la regione con il rischio povertà più alto.
L’Emilia Romagna, invece, ha quello più basso: 10,1.
Il rischio povertà non è altro che la percentuale di persone che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore a una soglia di rischio di povertà, fissata al 60% della mediana della distribuzione individuale del reddito netto equivalente.
Non è da confondere con la povertà assoluta, che si basa su altri parametri.
Il reddito netto considerato per questo indicatore rispetta la definizione europea e non include componenti in natura, come l’affitto figurativo, i buoni-pasto e altri benefit non-monetari (ad eccezione dell’auto aziendale) e gli autoconsumi.
Andando nel concreto, nel 2018 la soglia di povertà (calcolata sui redditi 2017) è pari a 10.106 euro annui (842 euro al mese) per una famiglia di un componente adulto.
Nel 2018 il 20,3% (valore stabile rispetto al 2017) delle persone residenti in Italia (circa 12 milioni e 230 mila individui), è a rischio di povertà.
Che cosa vuol dire?
Hanno un reddito netto equivalente nell’anno precedente all’indagine, senza componenti figurative e in natura, inferiore a 10.106 euro (842 euro al mese).
L’8,5% (in diminuzione rispetto al 10,1% dell’anno precedente) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, mostra cioè almeno quattro dei nove segnali di deprivazione previsti.
L’11,3% (in lieve diminuzione rispetto all’11,8% del 2017) vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia in famiglie con componenti tra i 18 e i 59 anni che nell’anno di riferimento del reddito hanno lavorato meno di un quinto del tempo.
Secondo l’indagine Istat il dato più basso del rischio di povertà o esclusione sociale si registra nel Nord-est con il 14,6%.
Questo indicatore diminuisce solo nel Nord-ovest (da 20,7% nel 2017 a 16,8% nel 2018), in particolare per la più marcata riduzione dell’indicatore della grave deprivazione materiale.
Si registra un miglioramento delle condizioni di vita anche per le persone che risiedono nel Nord-est (da 16,1% a 14,6%) e nel Centro (da 25,3% a 23,1).
L’Italia è anche uno dei Paesi in testa alla classifica dei Paesi per disuguaglianza nei redditi, stando all’indice di Gini.
E, anche in questo caso, le regioni del Sud hanno dati più alti delle altre.
Anche a livello europeo l’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale diminuisce negli anni 2017-2018, passando dal 22,4% al 21,7%; in controtendenza l’Estonia, dove sale di un punto percentuale e la Finlandia in crescita di 0,8 punti percentuali.
Il dato del 2018 per l’Italia si mantiene inferiore a quello di Bulgaria (32,8%), Romania (32,5%), Grecia (31,8%), Lituania (28,3%), sebbene di gran lunga superiore a quello di paesi come Repubblica Ceca (12,2%), Slovenia (16,2%) e dei paesi europei più grandi come Francia (17,4%), Germania (18,7%) e Spagna (26,1).
Niccolò Rejetti
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