Ennesimo tonfo finanziario in Germania, nessuno ne parla
Il copione è trito e ritrito: miliardi di euro spariti in un angolo esotico del pianeta, in questo caso le Filippine; un manager osannato come novello “Steve Jobs” per la montatura leggera delle lenti e il dolcevita con cui vestiva le sue intuizioni da visionario.
Soprattutto uno stuolo di autorità, enti e controllori che hanno chiuso gli occhi per anni prima di sgranarli improvvisamente alla notizia di un buco da due miliardi di euro.
Gli stessi che ora cercano di rifarsi una verginità balbettando frasi di circostanza su come sia stato possibile non vedere una voragine così grande nonostante i tanti allarmi e le denunce.
Lo scandalo Wirecard che sta scuotendo la Germania è ormai noto: alla fine della scorsa settimana, la società di revisione Ernst & Young non è riuscita a chiudere per l’ennesima volta il bilancio del 2019 del gioiello dei pagamenti digitali per mancanza di informazioni sufficienti sui saldi di cassa di due conti asiatici.
Ma quando la Banca centrale delle Filippine ha smentito l’esistenza di quei conti, i timori di una frode in stile Parmalat sono diventati realtà: i contanti non solo non c’erano, ma non erano mai stati depositati.
L’ex Ceo di Wirecard Markus Braun è stato arrestato dai procuratori di Monaco di Baviera e poi rilasciato dietro il pagamento di una cauzione da cinque milioni di euro.
È sospettato di aver truccato i conti della sua società e di aver manipolato il mercato falsificando i proventi delle transazioni con acquirenti terzi.
Nei suoi 18 anni alla guida della piccola società diventata una sorta di Paypal bavarese l’ha portata da poche decine a più di cinquemila dipendenti, con sedi in più di 20 Paesi, con una clientela gradualmente passata dai siti porno e d’azzardo a pezzi grossi societari e bancari (Ikea, Aldi, Bayer Monaco, Citigroup, Swiss, Softbank) e una capitalizzazione da oltre venti miliardi di dollari.
Tra giovedì scorso e ieri il titolo Wirecard ha bruciato più o meno l′85% del suo valore in borsa in un tracollo spaventoso da 100 euro a quasi 15.
La società teme per la sua sopravvivenza ora aggrappata alle linee di credito aperte con 16 istituti finanziari che, in ragione della mancata chiusura del bilancio, possono chiedere la risoluzione dei prestiti quando lo ritengono opportuno (è in corso un “dialogo costruttivo”): Wirecard finirebbe gambe all’aria in un istante.
Durante l’ascesa che l’ha portata nel 2018 a scalzare dall’indice Dax un colosso bancario come Commerzbank tra le trenta blue chip più capitalizzate non sono mancate le accuse e i sospetti su operazioni fasulle e giochetti contabili.
Pochi ricordano che Wirecard è già finita nel 2017 nello scandalo dei Paradise Papers, nei quali si leggeva di come la Wirecard Bank (l’istituto bancario controllato da Wirecard AG) offriva conti offshore ai gestori di gioco d’azzardo illegale in Germania.
La società negò ogni addebito e nessuno indagò oltre.
Gli occhi sono finiti nuovamente sulla società di fintech tra il 2018 e inizio 2019 quando il Financial Times ha denunciato presunte irregolarità contabili nella divisione di Singapore. L’azienda si chiuse a riccio dietro le critiche mosse dallo stesso Braun alla redazione londinese, spalleggiato dal Bafin, la Consob tedesca ovvero l’ente federale deputato a regolamentare e vigilare sul mercato.
Il titolo perse in pochi giorni il 12% del suo valore ma il controllore, invece di insospettirsi e controllare, prima criticò aspramente e poi denunciò penalmente i cronisti del quotidiano finanziario della City.
A febbraio 2019 Bafin vietò per due mesi le vendite allo scoperto sul titolo Wirecard, nel mirino degli speculatori a causa delle indiscrezioni riportate dal Financial Times a detta dell’autorità.
Una misura drastica, dal momento che mai era stato disposto prima il divieto per un singolo titolo (lo short selling venne vietato nel 2008 durante la crisi ma per tutto il comparto bancario).
La ragione? “I movimenti eccessivi del prezzo delle azioni di Wirecard” rappresentavano “una seria minaccia per la fiducia del mercato in Germania tenuto dell’importanza di questa società per l’economia”.
Fino all’altro ieri – prima dell’ammissione di Braun di una voragine da 1,9 miliardi di euro forse mai esistiti ma dopo lo scoppio dello scandalo – il ministro delle Finanze tedesco e vicecancelliere Olaf Scholz riponeva ancora la sua massima fiducia nel Bafin: “Le istituzioni di vigilanza hanno lavorato molto duramente e hanno fatto il loro lavoro”.
È stato paradossalmente smentito dopo poche ore dallo stesso presidente del Bafin che, con un mea culpa arrivato fuori tempo massimo, ha ammesso che la vicenda rappresenta una “vergogna” per tutta la Germania, dovuta a controllori come E&Y “che non sono stati in grado di scoprire le verità”.
Ma pure a “un’ampia gamma di entità pubbliche e private, inclusa la mia, che non sono state efficaci abbastanza per impedire che qualcosa di simile accadesse”, ha affermato Felix Hufeld.
Solo oggi il ministro Scholz ha fatto un clamoroso dietrofront affermando che “bisogna immediatamente inasprire le regole ed evitare che lo scandalo che ha offuscato la reputazione della Germania possa creare un precedente”, ha detto alla Reuters.
La giravolta improvvisa non è tuttavia servita a spegnere le polemiche per l’imbarazzante difesa dell’autorità di vigilanza per partito preso.
Il leader dei Liberali di Fdp al Bundestag Christian Lindner ha chiesto che il caso venga portato in Parlamento e una riforma dei poteri del Bafin.
Peccato che pure il suo partito a luglio dell’anno scorso difendeva l’operato della Consob tedesca e attaccava il Financial Times, senza minimamente interrogarsi sulla veridicità delle accuse giornalistiche: “Bafin ha agito correttamente e con decisione. La possibile interazione tra media finanziari e speculatori deve essere pienamente chiarita”, attaccò l’esperto finanziario di Fdp Frank Schäffler.
Gli attacchi più immediati sono rivolti alla società di revisione E&Y e su come sia stato possibile chiudere negli anni scorsi bilanci che ora sembrano improvvisamente non quadrare.
Il cda di Wirecard ha deciso di ritirare i risultati preliminari per il 2019 pubblicati a febbraio e quelli del primo trimestre 2020, e non ha escluso una revisione a cascata di tutti i risultati degli anni precedenti.
L’agenzia Moody’s in seguito allo scandalo ha ritirato il suo rating per insufficienza di informazioni contabili.
Resta tuttavia un dato: la frode contabile svela il fallimento della vigilanza finanziaria in Germania e imbarazza non poco il Governo Merkel.
la Redazione
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