Le aziende sono in crisi e la PA non paga i debiti dovuti
Dei 12 miliardi di euro messi a disposizione dal Governo Conte per consentire alle ASL, alle Regioni e agli Enti locali il pagamento dei debiti commerciali scaduti entro il 31 dicembre 2019, solo poco più di 2 miliardi sono stati richiesti da questi soggetti pubblici alla Cassa Depositi e Prestiti per saldare i propri creditori. Insomma, ancora una volta le aziende che lavorano per la Pubblica Amministrazione (PA) sono rimaste in massima parte a bocca asciutta.
L’ennesima dimostrazione di un malcostume tutto italiano che, anche in pieno periodo Covid, non accenna a venir meno.
Anzi, il rischio che la situazione regredisca ulteriormente è alquanto probabile.
Tra gli effetti generali della crisi in atto, il calo degli ordinativi e i mancati pagamenti, tante aziende fornitrici degli enti pubblici denunciano insistentemente la mancanza di liquidità e non è da escludere che, a dicembre, molte avranno grosse difficoltà a pagare le tredicesime ai propri dipendenti.
Un problema, quello dei mancati pagamenti da parte dello Stato e delle sue articolazioni periferiche, che, purtroppo, ci trasciniamo da decenni.
La questione sarebbe risolvibile se fosse consentita per legge la compensazione secca, diretta e universale tra i debiti della PA verso le imprese e le passività fiscali e contributive in capo a queste ultime.
Un automatismo che ristabilirebbe un principio di civiltà giuridica: le forniture di merci o le prestazioni di servizio devono essere onorate dal committente pubblico così come previsto dalla legge; entro 30 giorni o al massimo 60 in determinati settori, come quello sanitario.
Tuttavia, non tutte le aziende che lavorano per le Amministrazioni pubbliche attendono tempi biblici per essere saldate.
La Corte dei Conti, infatti, ha denunciato che negli ultimi tempi gli enti pubblici stanno tendenzialmente onorando con puntualità le scadenze di importo maggiore, ritardando invece premeditatamente il pagamento di quelle più modeste.
Una condotta che, ovviamente, sta penalizzando le piccole e piccolissime aziende che, generalmente, lavorano per appalti, forniture o servizi che presentano dimensioni economiche più contenute, rispetto a quelle assegnate alle medie e grandi imprese.
Pertanto, senza liquidità a disposizione, tanti artigiani e altrettanti piccoli imprenditori si trovano in grave difficoltà e, ironia della sorte, molti di questi rischiano di chiudere la propria attività, non per debiti, ma per troppi crediti non ancora incassati.
Con il “decreto Rilancio” il Governo ha messo a disposizione di ASL, Regioni ed Enti locali 12 miliardi di euro per liquidare almeno una parte dei debiti commerciali accumulati entro la fine del 2019.
Alla scadenza del 7 luglio scorso – data entro la quale gli enti territoriali dovevano chiedere alla Cassa Depositi e Prestiti le anticipazioni di liquidità per pagare i vecchi debiti – le risorse richieste hanno sfiorato i 2 miliardi di euro.
A seguito di questo risultato così modesto, con il “decreto Agosto” l’Esecutivo ha riaperto i termini: dal 21 settembre fino allo scorso 9 ottobre gli enti territoriali hanno avuto una nuova possibilità per accedere a queste risorse.
Una seconda opportunità che, purtroppo, è stata un fallimento. Ad attingere un prestito trentennale ad un tasso dell’1,22% messo a disposizione dalla Cassa per pagare i propri creditori ci hanno pensato pochissime Aziende sanitarie e altrettante Amministrazioni locali, per un importo complessivo di soli 110 milioni di euro.
Secondo i dati presentati dall’ Eurostat nell’ottobre scorso, negli ultimi 4 anni i debiti commerciali nel nostro Paese di sola parte corrente sono in costante aumento.
Nel 2019 lo stock ha toccato i 47,4 miliardi di euro. Nonostante le promesse politiche e gli impegni di spesa presi dalle dell’Amministrazioni pubbliche, le imprese fornitrici faticano sempre più a farsi pagare.
Ma la cosa più inammissibile di tutta questa vicenda è che nessuno è in grado di affermare a quanto assomma ufficialmente il debito commerciale complessivo della nostra PA; ovverosia aggiungere ai debiti di parte corrente anche la quota riferita al conto capitale, sebbene da qualche anno le imprese che lavorano per il pubblico abbiano l’obbligo di emettere la fattura elettronica.
Ricordiamo, inoltre, che l’avvento dell’e-fattura avrebbe dovuto eliminare un altro grosso problema che assilla i fornitori degli enti pubblici: vale a dire lo split payment.
Lo split payment, infatti, è stato introdotto nel 2015. Questa misura ha obbligato le Amministrazioni centrali dello Stato a trattenere l’Iva delle fatture ricevute e a versarla direttamente all’erario.
L’obbiettivo dichiarato è quello di contrastare l’evasione fiscale, evitando che una volta incassato il corrispettivo dal committente pubblico, l’impresa privata non versi più al fisco l’imposta sul valore aggiunto. Il meccanismo, sicuramente efficace nell’impedire che l’imprenditore disonesto non versi l’Iva all’erario, ha però provocato molti problemi finanziari a tutti coloro che con l’evasione, invece, nulla hanno a che fare.
Vale a dire la quasi totalità delle imprese che lavora per la PA. In altre parole, da qualche anno queste imprese non riscuotono più l’Iva, operazione che consentiva loro di fronteggiare nel breve periodo le necessità di cassa, e nel frattempo il volume dei mancati pagamenti è continuato ad aumentare.
In Italia le commesse pubbliche ammontano complessivamente a circa 140 miliardi di euro all’anno e il numero delle imprese fornitrici sono circa un milione.
Per quanto concerne l’Indicatore di Tempestività dei Pagamenti (ITP) dei ministeri italiani, la situazione al 3° trimestre 2020 è leggermente migliorata rispetto ai periodi precedenti, anche se la situazione generale rimane ancora “inaccettabile”.
Le condizioni più critiche riguardano il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che tra luglio e settembre ha saldato le fatture ricevute con un ritardo medio di quasi 20 giorni, il ministero dei Beni Culturali, con 34 giorni di ritardo e il ministero dell’Interno che, infine, ha onorato i pagamenti dopo 64 giorni dalla scadenza prevista dal contratto.
Altri, infine, non hanno ancora aggiornato i dati sul proprio sito internet.
Ci riferiamo al ministero dell’Istruzione/Università, della Giustizia e della Salute: quest’ultimo, addirittura, non ha nemmeno pubblicato quelli riferiti ai primi due trimestri, sempre di quest’anno.
Si ricorda che i ministeri sono obbligati per legge, come del resto tutti gli altri enti pubblici, a inserire trimestralmente nel loro sito, tra le altre cose, anche l’ITP.
Anselmo Faidit
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