I possibili futuri scenari delle città nel post coronavirus
Per il Financial Times la pandemia ha semplicemente accelerato un trend di declino in atto da tempo e le città non saranno mai più quelle di prima; per The Atlantic, invece, non sarà declino, ma piuttosto rinnovamento.
Di certo il dibattito è aperto.
A livello internazionale, molte aree urbane si preparano a grandi cambiamenti: Parigi spinge sul concetto di “città da 15 minuti” con spazi abitativi a breve distanza dal lavoro e dai servizi; Melbourne pensa al quartiere di 20 minuti fondato sulla “vita di prossimità” impegnandosi a garantire ai cittadini la possibilità di soddisfare la maggior parte dei loro bisogni quotidiani con una passeggiata da casa, piste ciclabile sicure e opzioni di trasporto locale; Montreal, intanto, sta lavorando alla definizione di un sistema ibrido che combini il lavoro a distanza e l’uso continuato dello spazio fisico.
In Italia, invece, tutto tace.
“Se non fai niente, paradossalmente, stai già facendo. Lasciando prendere il sopravvento a quegli stessi segnali che sono stati ignorati, anziché governati”.
Davide Agazzi, Matteo Brambilla e Stefano Daelli sono tre professionisti che dopo aver lavorato come policy maker nella pubblica amministrazione hanno iniziato a occuparsi dello sviluppo urbano da diversi punti di vista.
Un percorso di studio e ricerca che hanno sintetizzato nel progetto “Città dal futuro”: un lavoro di analisi, lettura e immaginazione sul futuro metropolitano.
D’altra parte nessuno ha dubbi che la pandemia stia cambiando la città in modo duraturo.
Thomas J Campanella, professore associato di studi urbani e pianificazione urbana alla Cornell University di New York ha spiegato al Financial Times che “le aziende si ridimensioneranno a piccoli luoghi di lavoro flessibili con sale conferenze e hot desk dove i dipendenti possono collaborare faccia a faccia secondo necessità, mentre nuove forme di strutture condivise sorgeranno nei quartieri e nei centri suburbani”.
Un pensiero condiviso anche da Agazzi, Brambille e Daelli secondo cui “è evidente che la specializzazione non paghi più. Eppure è uno delle teorie sulle quali le città si sono sviluppate negli anni. Chi viveva di turismo è in ginocchio, così come Milano è rimasta spiazzata tra la fine degli eventi e il boom dello smart working. Le amministrazioni comunali di colpo si sono accorte che quando tutto si dematerializza i cittadini se non possono andare perché non c’è nulla che li trattenga”.
Di fatto la pandemia ha reso esplicito il contratto di scambio tra la Città e le persone che la abitano: “Nell’ultimo decennio è stata sempre privilegiata la città a scapito dei cittadini. In sostanza, nel mondo pre Covid, le grandi città offrivano lavoro, servizi, reti sociali dinamiche e cultura in cambio degli anni migliori della tua vita sotto forma di produttività, inventiva, disponibilità alla socialità”.
L’intesa, però, era già saltata da tempi colpa di affitti e prezzi insostenibili; stipendi raramente all’altezza del costo della vita e reti sociali sempre più spesso escludenti. Tradotto: le città si sono ridotte a mere occasioni di lavoro, peraltro non sempre soddisfacenti.
Come a dire che i problemi non nascono oggi, semplicemente sono stati ignorati per rincorrere il mantra della crescita senza limiti.
La pandemia ha quindi guastato un equilibrio basato sulle illusioni e oggi sono i nuovi stili di vita emergenti a costruire le idee alternative di città: “Le grandi città a guida progressista qualche segnale lo hanno mandato, da New York a Londra fino a Milano, ma con i nostri comportamenti stiamo già indicando una via. E più che di una diversificazione abbiamo bisogno di un mix di possibilità e offerte: non mettiamo in discussione la città – dicono i tre professionisti – ma il tipo di realtà in cui vogliamo vivere perché andiamo verso un mondo nel quale la residenza sarà mobile e saranno gli interessi, economici e sociali e muoverci”.
Di conseguenza per progettare una città a prova di crisi non bisogna cadere nell’errore del passato che ammetteva una sola alternativa: “La contraddizioni vanno sintetizzate, non rimosse”.
Ecco perché gli autori hanno individuato quattro grandi tendenze che identificano quattro modelli di città:
- Acropoli: club privato, paradiso terrestre, esclusiva delimitata, stimolante, sofisticata, cosmopolita
- Irregolare: terreno abbandonato di sperimentazione e conquista, informale frastagliata permeabili, imprevedibile, decadente
- Leggera: città su richiesta, senza legami, connessa, smaterializzata, veloce, rarefatta, funzionale, efficiente
Contrada: città dei quartierini, la provincia in città, vicina, attiva, cordiale, controllata, decorosa, omologante, conservatrice.
La convinzione di Agazzi, Brambilla e Daelli è che tenere insieme queste direttrici permetta di costruire una città “desiderabile” che “contribuisce alla sicurezza e alla piena realizzazione delle persone che la abitano“.
Motivo per cui scegliere una sola mutazione sarebbe un errore grave: non potrebbe rispondere ai bisogni di tutti.
La rinascita delle città può passare solo dal raggiungimento dell’equilibrio tra una dimensione individuale, di affermazione personale e una dimensione collettiva che premi lo sforzo delle comunità e favorisca l’iniziativa pubblica.
Arnaud Daniels
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