L’islam in Francia cresce nel silenzio generale
Piuttosto che licenziare i suoi giornalisti, ha preferito dimettersi lui, Yann Lalande, direttore del settimanale locale francese, Journal de Saint-Denis.
Lo ha fatto denunciando parte della sua redazione e la «sinistra identitaria», colpevole di minimizzare l’assassinio di Samuel Paty, l’insegnante decapitato il 16 ottobre dal terrorista islamico, Abdhoullakh Anzorov, dopo aver mostrato in classe le vignette su Maometto realizzate da Charlie Hebdo.
Lalande, che si trovava in congedo nei giorni immediatamente successivi al brutale assassinio, ha proposto alla redazione un editoriale il 28 ottobre, una volta rientrato al lavoro.
L’editoriale dal titolo «Lo spirito di Monaco» accusava l’islamismo di essere un «progetto fascista. I discepoli di un certo islam politico radicale non vogliono staccarsi e vivere la loro vita tranquillamente. Vogliono sostituire le loro leggi a quelle della Repubblica».
Aggiungeva poi che condannare il terrorismo islamico non significa attaccare «la grande maggioranza dei musulmani di Saint-Denis o di altre parti che praticano la loro religione nel rispetto delle leggi. Non c’è alcuna ragione di temere che si faccia di tutta l’erba un fascio, associandoli ai loro correligionari estremisti radicali».
Dopo aver fatto girare, come di consueto, il suo editoriale tra la redazione prima di pubblicarlo, ha assistito a una vera sollevazione da parte di un buon numero di giornalisti, riporta Marianne.
Alcuni l’hanno preso da parte rimproverandogli di non aver fatto una distinzione tra islamisti e «musulmani conservatori», di non avere allo stesso tempo denunciato «l’islamofobia», di non aver richiamato le colpe della Francia coloniale e della «schiavitù».
Un giornalista è arrivato a dirgli: «Mi sembra una chiamata alle armi che, nel nome della Repubblica, incita alla vendetta».
Lalande è rimasto turbato da questa reazione a un editoriale che voleva soltanto ricordare una vittima del terrorismo islamico e denunciare la barbarie dei nemici della Francia.
A spingerlo alle dimissioni è stato però anche un altro episodio: il 29 ottobre, infatti, Le Figaro ha pubblicato un articolo raccontando la disavventura di un commerciante di Saint-Denis, che dopo aver affisso nel suo negozio le vignette incriminate di Charlie Hebdo aveva ricevuto diverse minacce da parte degli estremisti islamici.
Il direttore del Journal de Saint-Denis è subito andato a trovarlo e ha scoperto che un suo giornalista sapeva tutto da diversi giorni della vicenda, ma aveva preferito «tenere per sé questa informazione» perché il tema era troppo «sensibile».
L’autocensura di alcuni giornalisti della redazione, spiega Le Figaro, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Il 12 novembre Lalande ha annunciato le sue dimissioni con questo editoriale: «Poiché la risposta alla sfida dell’islamismo deve essere collettiva e poiché ci sono differenze di fondo in seno alla redazione sulla percezione della società francese, ho deciso che mi dimetterò nelle prossime settimane.
Durante questi tre anni di lavoro con la redazione ho cercato di essere il più pluralista possibile.
Fosse stato solo per me molti articoli non li avrei pubblicati o non così come sono usciti.
Il paradosso è che in questo giornale la censura non viene dall’esterno ma dall’interno.
E questo è il risultato di una sinistra che passa il suo tempo a dire ciò che non bisogna fare o ciò che non bisogna dire invece che agire.
Una sinistra con la sua collezione di “capelli spaccati in quattro”, minata dal suo individualismo forsennato.
Una sinistra che passa dall’identitarismo al vittimismo.
Una sinistra che è in grado di fare un unico discorso collettivo: “Noi siamo tutti diversi”».
Salvarico Malleone
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