Grazie Paolino, per tutte le gioie che ci hai donato
La mattina in cui gli italiani si sono svegliati apprendendo della scomparsa di Paolo Rossi un magone ha preso la gola di milioni di connazionali.
Uno dei leggendari eroi di Madrid dell’11 luglio 1982 che con le sue reti determinanti contribuì a far vincere il primo Mondiale della nostra storia repubblicana, c’è, nella filigrana dei tributi e delle testimonianze d’affetto, la certezza di avere perso una figura capace, più di tante altre, di riempire di significato il concetto di appartenenza, di orgoglio nazionale.
Uno degli uomini che hanno fatto l’Italia, icona nazional-popolare, un ragazzo che ha conosciuto, sostanzialmente appena nell’arco di un quinquennio da romanzo, la tristezza e la gloria, la condanna e la redenzione, la riabilitazione e il riscatto, sino a diventare – con la sua maglia azzurra numero 20, lui che se n’è andato in un anno in cui quella cifra si ripete – un vero e proprio simbolo non solo di un certo periodo storico, ma di una intera nazione.
È l’estate del 1982 quando si compie il prodigio al Mundial spagnolo e Paolino suona la riscossa: dopo un inizio di torneo segnato da critiche, polemiche e illazioni, ecco le tre reti contro il Brasile, altre due contro la Polonia e una – quella del vantaggio – nella finale contro la Germania Ovest.
Nelle piazze italiane tornano a vedersi le bandiere tricolori le auto strombazzare, le fontane diventar piscine.
Giovanni Spadolini, allora presidente del Consiglio, nel giorno in cui ricevette la Nazionale prima della partenza per la Spagna, così si espresse: “Una tendenza storiografica moderna vede e scrive la storia non già sui fatti politici ma sugli altri fatti, apparentemente minori ma forse più dei fatti politici incidenti sulla vita quotidiana della gente.
In altre parole, se voi vincerete il Mondiale la memoria storica degli italiani del 1982 sarà molto più legata ai vostri nomi che non ai nomi del governo”.
Fu un felice presago, andò esattamente così, in un’Italia che aveva bisogno di quell’evasione, di quella gioia inattesa e intensa e persino di eroi.
Zoff, Scirea, Tardelli. ma soprattutto Rossi, la cui parabola umana e sportiva sembrava seguire la storia di quegli anni.
Paolo Rossi era diventato Pablito non in Spagna, ma quattro anni prima nel Mondiale argentino quando, ventitreenne capocannoniere della Serie A con il Lanerossi Vicenza, venne chiamato per il suo primo grande torneo internazionale da Bearzot.
Un giovanotto serio, intelligente, bello e garbato, con le stimmate del campione: segnò tre reti, fu il miglior marcatore azzurro. Un predestinato.
Ma quella era l’Italia degli anni di piombo, con ancora apertissima la ferita del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, nel pieno del processo figlio dello scandalo Lockheed, quella che avrebbe iniziato gli anni Ottanta con i delitti di mafia, le stragi di Ustica e di Bologna, le brigate rosse ed i fiumi di sangue, la P2. E in tribunale sarebbe finito anche Rossi con la maglia del Perugia nella primavera del 1980 per via del calcio-scommesse, o totonero, spettacolarizzato nelle cronache e nelle operazioni di polizia, con i calciatori alla sbarra alla stregua di delinquenti.
Il mondo poteva crollargli addosso ma il presidente della Juventus, Giampiero Boniperti, credette alla sua versione, lo portò a Torino e gli offrì la possibilità del riscatto con la maglia bianconera, nella stagione 1981-82 disputò solo tre partite ma gli servirono per restare nel giro e rifarsi un immagine con i campioni d’Italia.
Il futuro gli avrebbe regalato altro, perché Paolino si sarebbe rialzato dalla caduta in un 1982 destinato a far cambiare di segno la sua esistenza e, anche grazie a lui, l’immagine proiettata di un Paese che, proveniente da indicibili sofferenze, trovò la catarsi nel calcio, attraverso un trionfo che riportò l’Italia sui giornali per altri eventi rispetto ai drammi di una quotidianità di cronaca nera, e si sarebbe lanciato verso un periodo di crescita e spensieratezza.
Rossi divenne icona di riscatto e da allora, e per almeno tre decenni, avrebbe abitato i sogni calcistici di diverse generazioni, a prescindere dalle bandiere e dalle fazioni. Un ragazzo come noi, avrebbe cantato successivamente Antonello Venditti.
Un ragazzo che, senza pretenderlo e senza forse nemmeno rendersene conto, ha contribuito a migliorare l’Italia.
Ciao Paolino, e ancora grazie.
la Redazione
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